Marta Verginella dirige il progetto di ricerca ERC Eirene, un’indagine sulle conseguenze sociali dei conflitti nel nord Adriatico. L'abbiamo incontrata a Gorizia dove è intervenuta alla rassegna èStoria
(Articolo pubblicato in collaborazione con Eastjournal )
È una giornata di metà novembre 1961 quando Franco Basaglia entra per la prima volta in un manicomio. È l’ospedale psichiatrico di Gorizia, all’estremo lembo orientale d’Italia, e uno dei suoi muri di cinta coincide con il confine: al di là c’è la Jugoslavia, siamo in piena guerra fredda. Tra le centinaia di persone ricoverate, tante sono di origine slovena e uno dei primi compiti che si prefigge il nuovo direttore è cercare degli interpreti per superare la barriera linguistica e comunicare con loro, anche con chi non parla più da anni.
In questo luogo simbolico (dove avrà inizio una rivoluzione della psichiatria) un confine divide gli stati e le lingue, ma anche i cosiddetti “sani” dai malati. Eppure questa linea tracciata a tavolino negli anni si è spostata, creando un forte senso di spaesamento in chi si ritrova all’improvviso dall’altra parte. Un processo spesso cruento e dalle ricadute traumatiche sulle vite delle persone che lo subivano. Ne parliamo con Marta Verginella, docente di storia all’università di Lubiana.
Ci può spiegare meglio il concetto di “spaesamento” che sembra essere un tratto costante nelle persone che hanno vissuto i conflitti del Novecento nelle zone di confine?
Lo spaesamento che si rintraccia indagando sia le fonti autobiografiche che quelle psichiatriche nei dopoguerra del Novecento denota un difficile adattamento emotivo alla realtà post-bellica e soprattutto la difficoltà ad accettare lo spostamento dei confini e la conseguente nuova appartenenza nazionale del territorio. Una parte degli individui, soprattutto quelli socialmente o emotivamente più deboli, non riuscivano ad accettare velocemente i grandi cambiamenti e la nuova politica identitaria.
L’indagine che conduco con un team internazionale di ricercatori e ricercatrici, austriaci, sloveni, italiani e croati, nell’ambito del progetto ERC Eirene che dirigo, studia le forme di smarrimento che in taluni casi hanno portato alla malattia mentale. La dissoluzione di compagini statali, come per esempio quella dell’Impero asburgico, o di regimi come quello mussoliniano oppure ancora quello della Jugoslavia socialista, ha imposto nuovi sentimenti nazionali e avvalorato nuove pratiche istituzionali. Una parte dei residenti è rimasta senza patria e quindi senza cittadinanza, mentre le minoranze nazionali hanno visto ridimensionarsi i loro diritti nazionali oppure sono state soggette a persecuzioni, spesso molto violente.
Tutti questi cambiamenti hanno causato soprattutto nei soggetti più deboli, e a volte anche socialmente emarginati, forme di smarrimento e quindi anche una maggiore propensione ad ammalarsi di depressione, malinconia, nevrosi e di problemi ancora più gravi. In altre parole, le persone che non sono state in grado di elaborare il lutto per il mondo che hanno perso hanno subito dei traumi psichici e spesso non sono riuscite a risollevarsi.
Da dove nascono e quali sono le peculiarità delle sue ricerche comparate sugli archivi degli ex ospedali psichiatrici di Lubiana e Trieste ?
Dalla curiosità e dalla necessità storiografica di studiare l’area Nord Adriatica in modo transnazionale e comparativo. Il progetto ERC Eirene è stato pensato come un’indagine sul post 1918, sul secondo dopoguerra e anche sugli anni Novanta, ovvero sulle conseguenze sociali delle guerre jugoslave e dei processi scaturiti dalla caduta del muro di Berlino. Il focus è centrato sulle donne poiché spesso chi indaga sul dopoguerra si disinteressa completamente della dinamica di gender ovvero della popolazione femminile. Il nostro progetto prende invece in esame la popolazione femminile e cerca di capire quale è stato il ruolo delle donne, soprattutto nelle aree di confine e nelle società multietniche della Venezia Giulia, della Carinzia, nel Prekmurje e in Istria.
L’obiettivo è capire i processi di continuità e di cambiamento, il modo in cui sono stati acquisiti i diritti e le libertà conquistate grazie al coinvolgimento delle donne nell’evento bellico, come si è modificata nell’immediato dopoguerra la condizione femminile sia nell’ambiente domestico che nella sfera professionale e pubblica. Le fonti psichiatriche ci permettono di indagare le forme di sofferenza e le conseguenze psichiche delle guerre, in particolare dei bombardamenti, ma anche quelle inerenti alla malnutrizione, alla precarietà materiale e politica ecc.
Oggi chi si trova a vivere in un teatro di guerra soffre di stress post-traumatico (o PTSD ), ma già nel primo e nel secondo conflitto mondiale c’erano casi di disagio psichico legato agli eventi bellici, seppur chiamato con nomi diversi? Era più spesso associato ai militari o negli archivi si trova traccia anche di civili?
Nella documentazione lubianese come in quella triestina sono molti i casi del cosiddetto shell shock, lo shock da combattimento. La guerra in trincea ha provocato moltissimi traumi ai fanti e agli ufficiali e molti di questi venivano curati negli ospedali militari. Per questo nella documentazione psichiatrica troviamo una minima parte dei casi trattati dagli psichiatri triestini e lubianesi.
Più numerosi sono i casi di donne traumatizzate da bombardamenti aerei e dalla presenza di soldati nelle loro vicinanze. Anche la Seconda guerra mondiale ha lasciato un forte strascico di paura tra la popolazione femminile. Molte donne si sentivano minacciate per le scelte fatte dai loro cari, erano traumatizzate per le devastazioni, soprattutto dai bombardamenti, ma anche dalle incursioni di soldati tedeschi e italiani, nonché per quelle partigiane. Molte madri non riuscivano a elaborare il lutto per i loro figli uccisi dai tedeschi o deportati nei lager nazisti e via dicendo. Un mondo di sofferenze, turbamenti e malattia che colpiva gli appartenenti di tutti i ceti sia nelle aree rurali che in quelle urbane.
In un recente incontro al festival èStoria tenutosi a Gorizia, accennava a un possibile prosieguo di queste ricerche sulla salute mentale e le guerre nella ex Jugoslavia: ci vuole dire qualcosa di più?
Sarebbe sicuramente interessante avere a disposizione le fonti psichiatriche degli anni Novanta per capire meglio le conseguenze della dissoluzione della Jugoslavia, non solo tra la popolazione che è stata coinvolta nel conflitto bellico in Bosnia, in Croazia e Serbia e poi in Kosovo, ma anche in quella parte dell’ex Jugoslavia dove il conflitto bellico è stato meno devastante. Per ragioni di privacy però non è possibile ottenerle.
Tuttavia, da vari indizi si può intuire lo sconvolgimento emotivo che in molti hanno vissuto nella propria soggettività e nel silenzio. La collettività proiettata verso il futuro, interessata a costituirsi come nazione indipendente, rincorrendo un’economia di mercato neoliberista ha lasciato ai suoi margini i deboli, coloro che non furono in grado di adeguarsi al nuovo sistema valoriale. Basti pensare a tutti coloro che persero il lavoro nel periodo di transizione e soprattutto a chi si trovò senza cittadinanza e quindi senza i minimi diritti civili dagli anni Novanta in poi. La storia dei “cancellati” che persero ogni status giuridico di cittadini nella Slovenia indipendente è solo una di queste pagine vergognose avvenute dopo la dissoluzione della Jugoslavia (la storia è raccontata anche nel libro di Miha Mazzini, “I cancellati”, BEE 2018; NdR). Si trattava di persone che non optarono subito per la cittadinanza slovena e rimasero per anni giuridicamente sospese, senza patria, senza documenti e senza diritti.
(Tra le ultime pubblicazioni di Marta Verginella: Donne e confini, Manifestolibri 2021; Slovenka. Il primo giornale femminile sloveno 1897-1902, Vita Activa 2019; Il confine degli altri, Donzelli 2008)
*Laureata in scienze naturali con un master in comunicazione della scienza, lavora per la casa editrice Zanichelli ed è autrice di Odòs – libreria editrice e dei magazine online La Falla e La ricerca.
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