Cavoli, verze, porri, carciofi, friarielli e poi durette, melangoli, femminelli e l'esotico kumquat. Tutto questo si può vedere - se si hanno gli occhi di chi assapora il paesaggio - dal finestrino di un treno. La quarta di cinque puntate del nostro viaggio da nord a sud, lungo i binari che costeggiano l'Adriatico
(Vai alla prima, seconda, terza puntata)
Mi risveglia una raffica di Scirocco, che muove il vagone. Treno fermo sul binario a trenta metri dalla battigia. Spiaggia stretta e deserta, mare torbido e frangente. Ondeggia la sparuta macchia, oscilla la carrozza sotto raffica. Lo Scirocco non molla, tiranneggia in cielo e in mare. Il capotreno annuncia che si tratta di una breve sosta tecnica. Arriveremo a Foggia con dieci minuti di ritardo. Un anziano signore, molto elegante, che siede di fronte a me alza gli occhi dal giornale e guarda pensieroso l'orizzonte. Poi si gira, s'abbassa gli occhiali.
“Che burrasca!”, mi dice fulmineo.
“Sciroccalone”, rispondo altrettanto lapidario.
“Romagnolo immagino?”
“Sì e lei?”
“Originario di Norcia; la conosce? Ma vivo e lavoro… cioè lavoravo a Foggia. Sono in pensione”
“Norcia! Ci sono stato diverse volte, l'ultima in bici. Venivo da Spoleto, percorrendo il tracciato della vecchia ferrovia dismessa”
“Prima del terremoto?”
“Sì, direi qualche anno prima”
“Un disastro. Ma proprio ieri almeno abbiamo festeggiato il restauro della torre civica. C'è una pagina anche sul Corriere”, dice mostrandomi il giornale e sciogliendosi in un sorriso fanciullesco.
“Sono cresciuto in questa piazza”, dice indicando la foto di centro pagina, “Giocavamo a nascondino, facendo tana alle spalle della statua di san Benedetto.”
“Che bello”
Non riesco a dire nient'altro, è un fiume in piena. Ascolto il suo racconto dell'andare e venire da un angolo all'altro del borgo, dello scorrazzare di bambini nella “cittadella dell'anima”, con il tempo scandito dai rintocchi della campana civica che da ieri, dopo quattro anni, è tornata a suonare. Il treno rallenta, il racconto s'interrompe.
“Si scende”, mi dice ritrovando un tono austero. Quello dell'avvocato? del notaio? del medico? che immagino sia stato. Chissà quando e perché s'è trasferito a Foggia? Domande sospese, incontri brevi, emozioni scucite, vibranti fugacità ferroviarie.
Nel binario vicino c'è il trenino della Ferrovia Garganica. Vorrei scendere e cambiare itinerario. Ritornare a Rodi, antica isola di grecità adriatica, per vedere questo burrascoso tramonto, bevendo un bicchiere di vino su una panchina del corso “sott'u castel”. Vorrei anche tornare per andare in un giardino, come chiamano lì gli agrumeti. Vorrei raccogliere e assaggiare durette, melangoli, femminelli e l'esotico kumquat, il mandarino cinese che fece scalo nell'Ottocento a Corfù, prima di trovare fertili terreni e mani garganiche. Del kumquat mi parlò un ragazzo in un tiepido tramonto di settembre, camminando e discorrendo di storie e genti rodiane. Biotecnologo, aveva voce tranquilla e occhi accesi, competenze ed entusiasmi di un mondo nuovo, capace di far tesoro del passato. Cercando notizie in rete sul kumquat e sugli agrumi garganici vado fuori strada, come spesso accade. Magie e sortilegi, disgrazie e fortune, di questo neo-medioevo digitale. Così in pochi clic, mi ritrovo a sfogliare la Rivista dei Trasporti, gennaio 1925: “Così il promontorio del Gargano, vastissima regione totalmente fuori da ogni comunicazione con i centri di civiltà, avrà la ferrovia che attraverserà le sue selve di faggi e di pini colossali, i suoi giardini di mandorle e di agrumi e s'inerpicherà sulle alture del Santuario di Montesantangelo a circa 900 metri per ridiscendere poi al mare di Vieste e di Rodi”.
Chiudo la pagina web e faccio una merenda frugale: una navelina, quattro fichi secchi e una decina di mandorle, guardando dal finestrino il film della Capitanata agricola. Terre rosse, strade bianche, geometrie contadine. Colori plastici, accesi punteggiano le cento sfumature di verde di cavoli, verze, porri, carciofi, friarielli. Sulla scena pochi, nuovi attori di pelle scura, antiche miserie e fatiche. Anche qui, in questo ventoso pomeriggio d'autunno, in questa fertile California foggiana, aleggia il fantasma di Tom Joad, “Look for me mom I'll be there / Wherever there's somebody fightin' for a place to stand / Or a decent job or a helpin' hand / Wherever somebody's strugglin' to be free”, canta Bruce Springsteen. Dallo smatrtphone la riascolto mentre lontano a oriente il Gargano è un'isola, grande e d'antica spiritualità. Dal finestrino, Monte Sant'Angelo è il luminoso, bianco, alto castello dell'isola; le pale eoliche sono le vele nuove di questo immobile paesaggio fluttuante che la circonda.
Sfrecciamo nella stazioncina di Cerignola Campagna, poi pieghiamo a est, verso il mare, in direzione Trinitapoli, luogo d'arrivo dei tratturi che scendevano dalle montagne abruzzesi. Qualche gregge si vede ancora, frammenti d'antica vita pastorale in un paesaggio destrutturato, postmoderno, smarrito. A ben guardare comunque, tra capannoni attivi e dismessi, casette abitate e dirute, distributori e bazar, autosaloni e magazzini, cavalcavia e rotatorie, l'ulivo e la vite si fanno largo, diventano se non protagonisti, comprimari a cui spetta ancora un ruolo importante in quel gran, confuso teatro che è il paesaggio italiano. Quando chiudo gli occhi mi vengono in mente i lavori di Mimmo Rotella, Wolf Vostell e Jacques Villegle. Viviamo in un paesaggio décollage, vediamo o dovremmo imparare a vedere e apprezzare un territorio che è un'infinita sequela di manifesti, di strati incollati, stappati, lacerati. Se Antropocene è l'epoca attuale, di certo abitiamo strappaesaggi (paesaggi strappati) che sono anche strapaesaggi (paesaggi stragrandi e straordinari) o Lacerated Landscape, per usare il globish.
Elucubrazioni o allucinazioni ferroviarie, interrotte dalla brusca frenata nella stazione di Barletta, città natale dello straordinario pittore verista Giuseppe De Nittis. Qui dovrei scendere, qui ogni innamorato della ferrovia dovrebbe scendere, per andare a vedere e rendere omaggio a uno dei quadri più belli e immaginifici di questa nostra passione odeporica: “Passa il treno”. Invisibili locomotore, vagoni, sedime e binari. C'è solo una bianca, vaporosa nuvola rasoterra, che divide in due una campagna invernale, sotto un cielo plumbeo e minaccioso. Due contadine lavorano chine, così simili nella postura e nell'indifferenza ai migranti che ho visto qualche minuto fa. Sono madri e sorelle degli okies di ogni tempo e luogo. Si riparte: Trani, Bisceglie, Molfetta, Giovinazzo. Compongono per il marinaio un'orazione portuale d'antichissima e devota memoria, sulle rotte della Terrasanta. Dal finestrino del treno, l'Adriatico lo immagino guardando in cielo cumuli che corrono veloci come velieri corsari e in terra fronde d'ulivi che fluttuano come onde capricciose.
Siamo già alla stazione di Bari-Santo Spirito, lì dove secondo Carcani, l'autore ottocentesco che mi accompagna in questo lungo viaggio ferroviario, “incontriamo la Via Appia... la più famosa delle grandi vie militari aperte dai Romani, e perciò chiamata da Stazio, regina delle lunghe vie”. Relazione viaria antica e complessa quella tra l'occidente e l'oriente italiano. Vado in fondo alla mia guida, dove c'è un dettagliato itinerario grafico che visualizza la centralità di Bari nelle relazioni Adriatico-Tirreno-Ionio. Da lì infatti si stacca il ramo ferroviario meridionale di collegamento con Taranto, completato nel 1868.
In quella direzione va' il mio compagno di viaggio, Alberto Savinio, il dioscuro che ha dipinto le immagini oniriche di questo mio racconto ferroviario. “Lasciato l'Adriatico a mancina, il mio treno s'è tuffato nella campagna pugliese e taglia il tallone di nostra madre lo Stivale”. Il suo sguardo spaesato è il mio sentire spaesato. Ermes, la guida dei viaggiatori, sedeva accanto a lui sul “tenia lunghissimo di carrozzoni vecchi e neri” nel terribile, rivoluzionario 1917, siede accanto a me sulla Frecciabianca 8801 nell'inimmaginabile, pandemico 2020. Entrambi spettatori trasognati al gran varietà Adriatico ferroviario.
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