Vittorio Villa ha passato molto tempo in Bosnia Erzegovina impiegato in progetti di cooperazione allo sviluppo. Attualmente si occupa di immigrazione minorile coordinando un centro di accoglienza per minori extra-comunitari.
I soliti Balcani? Il convegno organizzato a Trento il 24 novembre scorso, si è tenuto in una cornice organizzativa che ha dato adito a diverse aspettative. La campagna di sensibilizzazione (volantini, mail-list, passaggi radio), gli inviti allargati a chiunque fosse interessato a quest'area geopolitica particolare (rappresentanti dei vari organismi impegnati in progetti sul territorio, ma anche persone coinvolte a titolo individuale), l'enorme sforzo promulgato dalla segreteria organizzativa facevano pensare ad un convegno diverso da quanti visti finora nelle diverse città d'Italia; persino la scelta dei relatori dava la speranza di una ventata di novità all'interno del mondo della cooperazione internazionale.
Speranza che, a parte alcuni spunti di rara lucidità, è stata presto disillusa e che ancora una volta dimostra come il mondo della cooperazione rimanga, nonostante tutto, conservatore ed autoreferenziale.
Degni di nota restano gli interventi di Claudio Bazzocchi dell'ICS e di Loris Defilippi di Medici Senza Frontiere.
Il primo ha dato uno spunto di riflessione alquanto interessante su come rinnovare il settore della cooperazione internazionale. Parlando della tanto decantata, e per questo bistrattata, cooperazione decentrata (molte ong si vantano di "decentrare" solo in virtù del fatto che richiedono finanziamenti a donatori differenti dal MAE) ha puntato il dito su una questione di reale importanza: come si può pensare di far entrare nel mondo della cooperazione enti locali che in Italia si sono messi in luce per la loro "fantasia sociale", quando gli stessi una volta chiamati ad operare all'estero rinunciano a questa loro prerogativa per un più "comodo e più visibile" intervento di "conservazione sociale"? Ponendo il dubbio se fosse sufficiente staccare un assegno da cinquecento milioni per assicurare un intervento in una zona di guerra per garantirsi "l'etichetta" di cooperazione decentrata, Bazzocchi ha colto nel segno: molto più semplice operare da lontano, ma garantendosi una buona visibilità in Italia che non rischiare di addentrarsi al cuore del problema e scoprire tutta una serie di problemi (anche di consenso politico) che potrebbero mettere a rischio l'intervento stesso.
Il secondo si è fatto notare per la lucidità con cui analizza le scelte di intervento in Paesi in emergenza. In breve, spiegando sia i motivi dell'intervento di MSF in Kosovo sia quelli dell'abbandono di Mitrovica per questioni di dissenso con la politica attuata dalla comunità internazionale da parte della stessa ong, Loris Defilippi non ha fatto altro che ricordare che il diritto di ingerenza contiene in sé anche il diritto di non ingerenza che gli organismi internazionali dovrebbero esercitare più spesso. Questa precisazione è stata l'unica vera ventata di novità, l'unica vera alternativa alla rincorsa ai grandi donatori praticata dalla maggioranza delle ong. Vero è che MSF ha un nome ed una storia di tutto rispetto per cui può ricorrere alla raccolta fondi in maniera privilegiata rispetto alle altre organizzazioni non governative, ma è soprattutto vero che se queste ultime non si alimentano di questo coraggio, il mondo della cooperazione difficilmente si svecchierà, difficilmente si rinnoverà, difficilmente si scollegherà dallo schema progetto (presentazione, finanziamento, realizzazione e inevitabile abbandono della zona d'intervento). Anzi corre il rischio di diventare il braccio umanitario di ben precise scelte politiche prese a livello governativo e realizzabili solo grazie all'intervento soft degli inviati di solidarietà internazionale; rischia di piegarsi agli interessi internazionali del nostro governo, piuttosto che tendere verso le esigenze dei Paesi in via di sviluppo o sconvolti da guerre massacranti; rischia di perdere una prerogativa fondamentale che da sempre dovrebbe (condizionale d'obbligo) caratterizzarlo: l'indipendenza, intesa come autonomia di movimento.
E' su questioni come queste, che il convegno avrebbe dovuto puntare di più l'attenzione. Ma soprattutto alcuni relatori avrebbero dovuto mettere in gioco maggior sincerità, visto il pubblico presente in sala. Pubblico che, va ricordato, era composto per la maggior parte di operatori del settore e non di neofiti alle prime armi in questo mondo.
E' per questo motivo che l'intervento del Ministro Serafini ha deluso parecchio. Si è limitato a ricordare quanti miliardi sono stati spesi dal governo italiano in dieci anni di sostegno alle popolazioni dei Balcani, ma, cosa forse peggiore, ha ammesso una sorta di ingerenza del governo italiano in materia di cooperazione decentrata. E' vero che i fondi per interventi di questo tipo non si trovano in natura, ma è anche vero che uno stanziamento di fondi da parte governativa significa maggior controllo, maggiori lentezze burocratiche e, soprattutto, maggiori vincoli di tipo politico (gli stessi che ricordava Bazzocchi nel suo intervento).
Un altro intervento che ha sostanzialmente deluso è quello di Giulio Marcon, presidente dell'ICS. Sottolineando l'importanza dell'intervento di ICS nei Balcani, ma soprattutto l'importanza di agire a favore della democrazia popolare, ossia di interventi atti alla crescita della società civile dal basso, Marcon è indiscutibile. Sia chiaro, ciò che ICS, attraversi le associazioni e i comitati membri del Consorzio, sta portando avanti progetti i cui obiettivi sono lodevoli. Ciò che varrebbe la pena discutere è il metodo da lui usato: la più bieca delle demagogie. Infatti, nel ricordare che ICS vanta il rifiuto alla partecipazione all'Operazione Arcobaleno per motivi di dissenso politico nei confronti di un governo che si è impegnato nel bombardare la Serbia, si eleva a sostenitore di valori e principi sacri e inviolabili; prende le distanze dalla maggior parte delle ong sempre alla rincorsa dei grandi donatori; riconosce ed ostenta una diversità tra ICS e il resto del mondo della cooperazione. Bisognerebbe chiedere (ma forse il convegno, per come strutturato non lo permetteva) a Marcon, se questo fosse vero quali sono i donatori di ICS che garantirebbero questa sua diversità (forse il Dipartimento Affari Sociali, che finanziava il Programma Minori Albania, nel quale ICS era anche leader per i CAG? O forse lo stesso MAE, al quale ICS ha presentato la propria candidatura per il progetto affidato minori in Bosnia? O forse ECHO o le altre agenzie dell'ONU -esempio UNHCR- come se queste non fossero composte da stati membri della NATO?).
Anche questo atteggiamento falsamente demagogico di chi vive e lavora nel mondo della cooperazione da anni deve scomparire se si vuole dare vita ad un restyling dello stesso. Seguendo l'esempio di MSF, occorre che le ong abbiano il coraggio di prendere delle posizioni decise, ferme, coerenti. Anziché lamentarsi del malfunzionamento del Patto di Stabilità, perché non uscirne fuori? Anziché lamentarsi delle lungaggini burocratiche dei finanziamenti MAE e delle scelte politiche del governo, perché continuare a richiedere finanziamenti governativi?
Anni fa Von Clausewitz diceva che "la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi", ora, vista anche l'attualità imperante fatta di distruzione e ricostruzione (unite da un malsano legame di causa effetto) il rischio è che la cooperazione si stia proponendo come la continuazione della politica con altri mezzi.
Per evitare ciò bisogna evitare di pensare agli interventi solo in funzione del donatore, bisogna avere il coraggio di sostituire i finanziamenti "facili" con quelli più difficili, bisogna alimentare il mondo della cooperazione con una buona dose di "fantasia sociale". Numerosi comitati cittadini, associazioni culturali, circoli e persino singole persone che agiscono individualmente possono essere prese ad esempio positivo e propositivo di ciò che il mondo della cooperazione può aspirare a diventare.
Purtroppo però, in questo convegno si è parlato poco di queste realtà, quando invece avrebbero contribuito ad evitare di ripetere gli errori che in dieci anni sono stati commessi.
Gli altri interventi sono stati puntuali ed onesti, anche se in parte fuori luogo.
Non si vuole mettere in discussione la validità delle ricerche svolte sul campo dalle ricercatrici che sono state in Kosovo e Macedonia. L'importanza di queste ricerche sta nel fatto che sono state raccolte quelle che vengono definite "voci di corridoio", sicuramente utili per un corso di formazione per cooperanti e volontari internazionali alle prime armi, non per partecipanti ad un convegno che ha come obiettivo analizzare dieci anni di errori commessi negli interventi nei Balcani. Per questo motivo una eventuale pubblicazione ed una ampia diffusione sono più che auspicabili. Ciò che lascia perplessi è la presentazione di tali ricerche ad un convegno in cui la maggior parte del pubblico vive e lavora in questi posti da parecchio tempo. Per chi si occupa da tempo di cooperazione sentire che in Kosovo l'intervento degli internazionali ha "drogato" l'economia locale, che la politica dei salari rovina l'assetto sociale del Paese, che gli internazionali guadagnano cifre impensabili, che solo una piccola parte delle ong ha risposto ai questionari somministrati, non suona certo come novità.
La novità sta nel fatto che questi argomenti, se ben divulgati potrebbero aiutare a formare nuovi operatori umanitari garantendo informazioni precise, puntuali, veritiere, evitando di fare ciò che le ong sono solite fare: mandare sul campo personale non adeguatamente preparato.
Vittorio Villa
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