Un racconto sull’impatto che la migrazione ha sulla lingua e le lingue parlate, maturato durante una corsa su un tram romano
Un paio di anni fa ho letto Tongue Stuck , un bellissimo racconto autobiografico di Irina Dumitrescu sulla sua difficoltà, lei figlia della diaspora romena in Canada, di esprimersi nella sua lingua madre.
Come Irina, e come tanti altri figli di immigrati, sono nata in un paese, e cresciuta altrove, condizione che pose ai miei genitori il dilemma della scelta del proprio lessico familiare. Optarono per l’italiano come lingua della quotidianità. Giunti in Italia nei primi anni Novanta, mia madre e mio padre subirono l’illusione della superiorità culturale, e quindi linguistica del paese ospitante. Nell’autunno del 1991, lasciammo una Romania che si era appena affacciata alla transizione democratica, impegnata a contrastare tensioni interetniche e gli strascichi della miseria che ci aveva imposto Nicolae Ceaușescu nel corso del decennio precedente. Eravamo andati via da Stoina, un minuscolo comune semi-industrializzato del sud della Romania, il cui paesaggio alternava ad un piccolo conglomerato di blocuri, celebre architettura abitativa comunista fatta di parallelepipedi di cemento, una pianura coltivata a girasoli, casupole ed una distesa di sonde petrolifere. Parte del distretto di Gorj, Stoina faceva parte di un’ampia area ricca di giacimenti petroliferi, sottoposti ad un'intensa attività di estrazione a partire dal secondo dopoguerra. Del resto, l’industria petrolchimica romena era stata uno dei vanti di Ceaușescu.
Le colline dell’Italia centrale che alternavano ordinati campi coltivati, ad uliveti e a benestanti cittadine umbre, non potevano che essere espressione manifesta del primato di questa cultura su quella del luogo da cui eravamo espatriati. Eppure, il mio primo ricordo dell’Italia non è legato alla grazia tardo medievale di Orvieto, ma ad un autogrill sull’Autostrada del Sole, ai miei occhi dimostrazione dell’opulenza occidentale: Tobleroni, confezioni colorate di dolci a me sconosciuti, refrigeratori colmi di salami, e videocassette delle Tartarughe Ninja. Difficile non lasciarsi convincere da tanta abbondanza.
Mi dicono sia stato per permettere a mia madre di imparare la lingua che abbiamo abbandonato l’uso del romeno e dell’ungherese in casa. Fino a quel momento, entrambi i miei genitori si erano rivolti a me nella rispettiva madrelingua. Oggi con più coscienza temo sia stata una resa ad un’assimilazione linguistica cui felicemente si sono abbandonati misto ad un desiderio di voler recidere i ponti con la propria vita precedente. E poi, come dar loro torto, in quegli anni nessun altro intorno a noi parlava le nostre lingue. L’abbandono della propria lingua è una dinamica talmente comune tra le comunità migranti che gli è stata attribuita una definizione linguistica: bilinguismo sottrattivo. Una perdita che Graziella Favaro, pedagogista, definisce come “generata anche da un vissuto di vergogna nei confronti del proprio idioma considerato non prestigioso, un tratto della propria storia da rimuovere”.
Che poi, che cos’è la lingua madre?
La lingua dei propri avi? La lingua della propria infanzia? La lingua che meglio si padroneggia?
Per ogni lingua che parliamo esprimiamo un bagaglio culturale interamente differente, con le proprie ironie, i propri sottintesi; per ogni lingua che padroneggiamo siamo uno, due, tre persone diverse, mi spiegò una volta intuitivamente Sándor, un prozio perfettamente bilingue, senza sapere di essere affatto pirandelliano.
Alla mia nascita, sono stata circondata da affetti che si rivolgevano a me in ungherese, nella sua articolazione seclera. Nessun suono m’è più dolce dell’idioma ungherese parlato dai secleri. È la lingua di mia mamma, mia zia e mia nonna, di tutte le donne e gli uomini che mi circondavano di attenzioni. Per i miei primi sei anni di vita, è stata la lingua di fiabe, filastrocche, e preghiere insegnatemi dalla mia mama, la nonna. Góg és Magóg fia vagyok én . Sono il figlio di Gog e Magog, leggeva mia madre recitando uno dei suoi poeti preferiti, Ady Endre, ungherese di Transilvania, il quale intesseva versi che raccontavano di personaggi biblici che diventavano miti ungheresi. L’ungherese è l’idioma delle emozioni forti che, per mancanza di vocaboli, non posso esprimere; ma anche la lingua del conforto e delle cose semplici.
Quando intendo l’ungherese seclero, mi par di regredire ad uno stato infantile. Ne riconosco la cadenza tonda e dolce, mi cullano quelle parole che facevano inorridire la mia insegnante dell’accademia di Ungheria a Roma, la quale giudicava lemmi dialettali come csupor, tazza, o pityókák, patate, troppo grossolani per l’orecchio di una cittadina di Budapest. Vocaboli quali tazza e patate esprimono perfettamente la mia età linguistica in ungherese, ferma all’espressione dei miei bisogni primari, e corrispondente ai miei sei anni, età in cui ho smesso di praticarlo nella mia quotidianità.
Molto meglio il livello dell’altra mia madrelingua, il romeno, che ho potuto tenere in esercizio grazie alla presenza della grande diaspora romena che ha trovato casa in Italia a partire dagli anni 2000. Il mio romeno è una contaminazione di dialetti combinato ad un’inflessione che quando torno in Romania nessuno riesce ad attribuire, eppure etichettato come senz’altro straniero.
Non posso che amare la cadenza del romeno di Transilvania, inflessione che mi fa sentire sempre a casa. Servus, saluto transilvano di derivazione latina e tutti quegli intercalari, jaj, presi in prestito dall’ungherese, e che assumono di volta in volta un significato differente. Ho un debole per le declinazioni ed il dialetto dell’Oltenia, regione storica del sud della Romania, terra di mio padre. È lì che resiste l’uso del passato remoto nella lingua parlata (perfectul simplu), caduto in disuso nel resto del paese. Si dice infatti fusei, văzui, făcui, per indicare fui, vidi, feci. Mi piace molto il suono di lemmi quali platajele, pomodori, che in romeno standard hanno l’evocativo nome di roșii; e lubeniță, il cocomero, in altre regioni noto piuttosto come pepene verde. Del romeno standard, amo quella che a tratti può sembrare una formalità cerimoniosa, che impone ci si rivolga a chiunque non si conosca con il Dumneavoastră, voi.
Del romeno mi piace l’unicità di una lingua latina liberatasi dai vincoli romantici della cadenza poetica, tipica delle altre lingue romanze, per adottare, come si conviene a popoli dalle storie travagliate, una certa durezza del suono, raffigurata dalla voce roca, intonata e forte di Maria Tănase, che negli anni Quaranta cantava i versi di una ballata tradizionale di Romania che la sua voce ha reso iconica. Lume, Lume, mondo, ma anche gente.
L’italiano è una lingua acquisita, eppure m’è materno. In italiano ho preso coscienza di me. A Dorotea, la mia insegnante di letteratura italiana del liceo, devo il lessico dell’adulta che sono e la comprensione del mondo attraverso il prisma della nostra letteratura. È Dorotea che mi ha fatto scoprire una lingua che varca i confini del quotidiano, immaginifica, arcaica, aulica, per fare il giro e tornare di nuovo quotidiana.
Tutte le mie lingue, più o meno materne, sono monche, recise. Mutilazioni dettate da interruzioni, spostamenti tra spazi geografici e linguistici. Eppure, ciò che manca ad una, lo ritrovo in un’altra, imperfezioni che si completano reciprocamente. Rosa Piro, linguista, afferma che dalla consapevolezza dei limiti della traduzione di concetti culturospecifici, e dalla contaminazione delle diverse realtà linguistiche, scaturiscono “feste delle lingue ” che contraddistinguono le scritture migranti. Un pastiche di idiomi ed immaginazioni che ritroviamo nella letteratura di scrittrici come Elvira Mujčić ed Igiaba Scego . Che la loro scrittura rappresenti le sfumature di una lingua arricchita che è l’italiano del presente e del futuro, ed il superamento del monolitismo linguistico, lo dimostra l’umanità linguistica della linea di trasporto pubblico romano 14. È sufficiente un tour su questo popoloso tram il cui percorso parte da Viale Palmiro Togliatti ed arriva alla stazione Termini per intendere mille e più voci che parlano un italiano vivo, espressione delle numerose diaspore residenti nella capitale e dei tanti giovani italiani che in una stessa conversazione attraversano liberamente confini linguistici e culturali passando dal cinese, o dall’urdu, o dal romeno, all’italiano, con intromissioni necessarie del romanesco. Sul 14, in questo plurilinguismo fatto di tante madrilingue, mi sento a casa.
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