Uno scritto di Michele Nardelli, per ricordare l'amico Luca Rastello, con il quale contribuì nei primi anni duemila a far crescere Osservatorio Balcani
Guardo in maniera strana il filodendro che ho in camera da letto. Qualche anno fa gli abbiamo dato un taglio radicale per tanto grande era diventata questa pianta, ma niente, ora sembra più forte che mai. Così ieri, dopo aver avuto la notizia che non avrei voluto ricevere, lo osservavo con una certa diffidenza perché di quella pianta Luca mi confessò imbarazzato aveva timore, tanto che una sera di tanti anni fa mi chiese di poter dormire in un'altra stanza.
Eppure Luca Rastello era una persona coraggiosa. Non solo per la sua capacità di abitare e raccontare le situazioni più conflittuali o nell'essere sferzante verso la cupola del sistema di potere della sua città, ma nel dire l'indicibile, nello svelare il criminale che sta dentro di noi, nel suo essere irriverente anche verso la “banalità del bene” e i suoi rituali salvifici.
La tragedia jugoslava fu il luogo del nostro incontro. Senza il bisogno di condividere l'impegno in progetti di accoglienza o di solidarietà, quel che ci accomunava era lo sguardo curioso sul nostro tempo, quel bisogno di comprendere quanto accadeva dietro le facili apparenze, quell'approccio verso la realtà che non chiedeva conferme di quanto già pensavamo, ma smentite piuttosto, consapevoli che – dopo l'89 – era il mondo intorno a noi che stava cambiando e richiedeva nuove chiavi di lettura.
Le immagini s'intrecciano lungo le strade dei nostri racconti bosniaci, nel cercare di cogliere l'essenza di quel che vedevamo in quel fazzoletto di Europa dove si andava sperimentando la postmodernità. E nel modo con cui da quest'altra parte del mare si guardava a questa tragedia, nello sguardo appannato di chi nella modernità leggeva antichi conflitti arcaici, nello scoprire che quella guerra era arrivata dentro le nostre case perché nell'interdipendenza niente più sarebbe stato altro da noi.
In questo bisogno di capire oltre ogni approccio emergenziale, nacque l'idea di Osservatorio Balcani della cui testata Luca fu il primo direttore responsabile. Per un momento Luca fu anche tentato di lavorarci sul serio, considerato che la sua attività professionale a Repubblica gli stava un po' stretta e perché lo avvinceva la prospettiva di lavorare sulla vicenda del Caucaso, l'altra guerra di questa Europa incapace di riconoscere se stessa, in quella regione che ci eravamo più volte ripromessi di viaggiare insieme.
Invece iniziò il duro confronto con l'insorgere subito violento della malattia. Una interminabile partita a scacchi, giocata con la stessa curiosa tenacia di cui era capace. Ne venne quasi una nuova esistenza, una traiettoria che indagava la sua vita, fra lo svelarsi del mondo dei “buoni”, il disincanto degli anni '70, l'ipocrisia dell'Europa e di una frontiera che anche quando superata non non ti togli più di dosso, la sua terra alle prese con il delirio dello sviluppo e l'invasività delle lobby di potere, per ritornare ai nostri mondi, a ciò che siamo e “al nostro bisogno di convivere con il male fingendo di combatterlo”. Povertà esibite, partite del cuore, circo umanitario. Del resto “essere angelo costa otto euro al mese”...
Eccolo qui, il suo ultimo romanzo che Luca aveva in mente fin da quando discutevamo della retorica del “bene”, nel nostro confrontarci sull'ambiguità di una cooperazione internazionale insostenibile ed invasiva, nel suo stimolarmi a scrivere dell'uomo senza fallo a capo della holding dell'emergenza, nel confronto ininterrotto fra noi sulle miserie delle nostre associazioni.
Esce “I buoni”... e si scatena la scomunica. Dei personaggi in odore di santità che lottano per il bene contro il male, di un mondo autoreferenziale che ha smesso da tempo di interrogarsi sul senso del proprio agire, di chi si sente chiamato in causa, per quanto in buona fede, padre-padrone del giocattolo che ci tiene in vita. Un romanzo nel quale tutto un mondo può in qualche misura riconoscersi, utile per guardarsi dentro... ma nessuno sa essere cattivo come i “buoni”, arrivando persino ad associare il feroce ritratto di Luca alla sua malattia.
Ora Luca ha tolto il disturbo. Con lui non ho mai avuto un'assidua frequentazione, non avevamo appartenenze condivise, né sul piano associativo, tanto meno su quello politico. Eppure Luca era uno di noi. Bastava rivedersi e i nostri sguardi già s'intrecciavano come sempre e come avvenne nel nostro ultimo incontro, in quella libreria di Via Cavour, a Roma, quando insieme presentammo nell'ambito della scuola di formazione Danilo Dolci il suo ultimo lavoro.
Uno sguardo esigente, ironico, mai banale, contagioso, di cui ora già sento la mancanza.
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