Si è tenuto sabato a Brescia il convegno “Balcani, 20 anni dopo”, promosso da Osservatorio Balcani e Caucaso e dall'associazione “Ambasciata della Democrazia Locale a Zavidovići” nel quadro delle iniziative per ricordare il ventennale dell'inizio dei conflitti in ex Jugoslavia. La sintesi del dibattito e i materiali
Negli anni '90, all'interno del movimento per la pace italiano, si sono affermate nuove pratiche e modalità di intervento che, in un convegno del 1993 a Verona, Alexander Langer aveva descritto nei termini di “pacifismo concreto”. A seguito dell'inizio dei conflitti nella ex Jugoslavia, in tutto il nostro Paese sono nate iniziative di accoglienza di profughi, scambi, esperienze di diplomazia delle comunità locali e azioni di solidarietà che hanno prodotto un cambiamento profondo nella storia del movimento pacifista, le cui conseguenze continuano ancora oggi.
Lo ha ricordato sabato a Brescia Giulio Marcon, presidente di Lunaria e portavoce della campagna “Sbilanciamoci!”, aprendo il convegno “Balcani, 20 anni dopo” nelle sale del Museo Ken Damy. Questa nuova prospettiva, che ha significato anche la trasformazione della cultura politica di un'intera generazione, ha favorito secondo Marcon la nascita di buone pratiche che sono proseguite in altre zone di conflitto e nel campo dell'accoglienza di rifugiati e richiedenti asilo in Italia.
L'eredità del pacifismo concreto
Questo pacifismo “concreto”, promosso da centinaia di gruppi locali provenienti dagli ambiti più diversi, dagli scout al sindacato, si è progressivamente affermato sostituendo altre prospettive quali, per riprendere la schematizzazione di Langer, quella del pacifismo “dogmatico”, tanto puro quanto staccato dalla realtà, o del pacifismo “tifoso”, cioè ancorato alla necessità di avere un nemico da denunciare. Questa trasformazione ha prodotto cambiamenti importanti anche nel mondo della cooperazione, che ha visto nascere nuove forme di intervento, che fissavano come proprio orizzonte quello della sostenibilità.
Cogliere l'eredità di questo movimento, diviso in passato da dibattiti per certi versi ancora aperti quali quello sull'uso della forza o sul diritto dei popoli all'autodeterminazione, significa oggi secondo Marcon costruire un quadro di impegno nuovo, allargato ad un'area euromediterranea e sostenuto da una società civile che non può che essere transnazionale e non più statocentrica, limitata dai confini.
A questo proposito Nicole Corritore, moderatrice della prima parte del dibattito, ha ricordato le fasi salienti della Campagna contro la Guerra svoltasi in Croazia per tutto il corso degli anni '90 (Anti Ratna Kampanja) e il lavoro che oggi, a Zagabria, viene svolto con l'obiettivo di ricostruire sotto il profilo documentario e analizzare quanto avvenuto nel Paese in quegli anni.
La solidarietà dei genovesi
La sociologa Anna Cossetta ha invece introdotto una dimensione scientifica nella discussione sul movimento di solidarietà con i Balcani, presentando i risultati di una ricerca commissionata nel 2009 dalla Caritas di Genova, “La solidarietà dei genovesi: l'esperienza dei Balcani”.
Il progetto di ricerca, basato su interviste qualitative e quantitative rivolte a 1.000 volontari di Genova che, tra il 1992 e il 2007, si sono impegnati per la solidarietà con i Balcani, ha prodotto un identikit sufficientemente preciso dei protagonisti e delle forme della partecipazione. Nella stragrande maggioranza (91,5%), chi ha preso parte a questo movimento è andato direttamente nei Balcani, partendo “per rendersi utile e vedere da vicino l'esperienza del conflitto”. Gli intervistati – mediamente in possesso di un titolo di studio molto alto – sono stati colpiti soprattutto “dalla crudeltà della guerra”, “dal senso di accoglienza delle persone” e dalla “indifferenza dei nostri mezzi di comunicazione”. Le persone coinvolte da quest'esperienza, infine, hanno dichiarato (oltre il 90%) di voler tornare nei Balcani, e continuano a richiedere strumenti di formazione e comunicazione adeguati per comprendere quanto sta avvenendo al di là dell'Adriatico. Tuttavia secondo Cossetta, che ritiene “fondamentale riflettere su questa pagina della nostra vita”, l'azione di questi volontari a Genova è rimasta silente, e non ha prodotto un'esperienza di solidarietà continuativa nel tempo, diversamente da quanto avvenuto in altre zone d'Italia.
La forza lieve
Anche per Mimmo Cortese, autore insieme a Roberto Cucchini del libro “La forza lieve” (La Meridiana, 2001), gli anni '90 hanno rappresentato un punto di svolta fondamentale nella storia del movimento italiano per la pace. Alla base della mobilitazione in solidarietà con le vittime dei conflitti in ex Jugoslavia, secondo Cortese, c'era un “sentimento cocente di sconfitta” per quanto avvenuto in Iraq con la prima guerra del Golfo. Nel nuovo contesto internazionale è maturato un dibattito importante in particolare sul rapporto tra mezzi e fini – dunque sulla nonviolenza – e sull'azione diretta, intesa come essere presenti nei luoghi del conflitto. Per questo movimento, secondo Cortese, ha avuto un'enorme importanza la marcia dei 500 a Sarajevo nel dicembre del 1992, sorta di riscatto del popolo della pace. Altre tappe fondamentali per il movimento, e per la città di Brescia in particolare, sono state la strage di Gornj Vakuf il 29 maggio del 1993, con la morte di Guido Puletti, Sergio Lana e Fabio Moreni, e pochi mesi più tardi l'assassinio di Gabriele Moreno Locatelli a Sarajevo, sul ponte di Vrbanja. Per la prima volta la morte colpiva chi si prodigava per la solidarietà, e Cortese ha ricordato anche le polemiche che avevano attraversato il movimento a seguito dell'azione dei Beati Costruttori di Pace nel corso della quale, il 3 ottobre 1993, Moreno Locatelli era stato ucciso. Restando legittime le critiche, ha detto Cortese, è importante ricordare che Moreno era un uomo “consapevole delle proprie azioni”.
La relazione si è poi soffermata sui tre episodi descritti ne “La forza lieve”, e cioè il successo dei pacifisti italiani nel rendere possibile il viaggio di un convoglio di aiuti umanitari per Tuzla, bloccato da mesi a Spalato, nel 1993, che ha dimostrato “la possibilità di intervenire, al di là del sentimento di impotenza”; il gemellaggio avviato in quegli anni tra la cittadina bresciana di Castenedolo e il comune bosniaco di Gradačac, attivo ancora oggi, e infine l'intervento dei pacifisti bresciani nei campi profughi di Spalato, che ha portato nel tempo a realizzare centinaia di adozioni a distanza. Episodi che hanno descritto un nuovo modo di fare politica, tendente ad avvicinare mezzi e fini.
Guerre e pace
Nel pomeriggio, Agostino Zanotti ha introdotto il dibattito parlando di cooperazione come pratica volta a “creare libertà, non nuove dipendenze”. Martina Iannizzotto, a partire dalla propria esperienza di cooperante, ha descritto le pulsioni contraddittorie del mondo della cooperazione e affrontato criticamente il tema degli aiuti umanitari, parlando di aiuti che servono appositamente a “non risolvere” situazioni di crisi. Marco Deriu, sociologo, è ripartito dall'assassinio dei volontari bresciani e del giornalista Guido Puletti nel 1993 per sottolineare come, nelle cosiddette “nuove guerre”, gli operatori umanitari siano diventati un vero e proprio obiettivo, citando una lunga serie di episodi avvenuti negli ultimi 20 anni che mostrano come non sia possibile parlare di casi isolati, ma di attacchi sistematici. La neutralità, spazio un tempo riconosciuto agli operatori umanitari e a istituzioni come la Croce Rossa, oggi – secondo Deriu - non esiste più. Il ruolo dei cooperanti e degli operatori umanitari è mutato, così come sono cambiate le strategie militari mentre il rapporto tra pace e guerra, tra civile e militare diviene più confuso. L'animato dibattito conclusivo, però, evidenzia che – a fronte di una generale condivisione rispetto alla quantità dei cambiamenti avvenuti in questi 20 anni – mancano ancora strumenti teorici e di analisi sufficienti per comprendere a fondo la qualità di questi cambiamenti e interpretarne i possibili sviluppi.
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