Maggio è il mese più adatto per visitare Bari, mese di San Nicola, mese in cui la città si apre idealmente all'Adriatico e al Mediterraneo tutto. Continua la nostra esplorazione dell'Adriatico, mare che accomuna
Molo Sant'Antonio, in un ventoso e bizzarro giorno di maggio. Un fortissimo Garbino, vento adriatico per antonomasia, trasforma il mare in una tavola di peltro zigrinata, il cielo in un sipario oceanico. Quale miglior mese dell'anno per visitare e raccontare Bari! Nel mese del Santo, di San Nicola venerato da cattolici e ortodossi; giorni in cui la città si apre da secoli idealmente all'Adriatico e al Mediterraneo tutto. Perché Bari è porto mediterraneo da più di mille anni, da molto prima di quel lontanissimo 1087 in cui le reliquie vennero traslate da Mira. Perché soprattutto Bari è oggi la capitale dell'Adriatico. Capitale cioè non di una nazione, ma di un mare, che non ha confini ed è spazio d'incontro, di scambio, di comunione. Capitale cioè non di una identità, ma di una appartenenza geografica e ambientale, storica e culturale, sociale ed economica. Un elenco non casuale ma di priorità, a cui sarebbe auspicabile associare anche una dimensione politica, vedendo almeno all'orizzonte un Adriatico mare d'Europa.
Bari è capitale adriatica indiscutibilmente per dati statistici e geo-politici. Bisogna ricordare che con 324.198 abitanti è di gran lunga il comune più popoloso che si affaccia sull'Adriatico, ma è diventato anche baricentrico nelle nuova geopolitica post-jugoslava, perché è la città della costa italiana più vicina a vecchie e nuove realtà nazionali: Slovenia, Croazia, Bosnia Erzegovina, Montenegro e Albania. Per lo spazio adriatico, Bari in questo nuovo secolo è oggettivamente molto più centrale che nel Novecento. È sì lontana da Capodistria, ma vicina a Spalato e Neum, vicinissima a Bar e Valona, con riferimento alle più grandi città costiere in rappresentanza delle altrettante nazioni che perimetrano l'Adriatico. Se questa è oggi la realtà adriatica, doppia sarà anche la curiosità del viandante, del flâneur delle rive.
Un flâneur che arriva in treno, sull'amata e antica Ferrovia Adriatica, che collega da oltre un secolo Ancona e Lecce. Se poi il flâneur è anche un marinaio, allora doveroso diventa recarsi subito al cospetto del ciclope barese, quel Faro di San Cataldo che in questi stessi giorni festeggia i suoi 150 anni. A fare gli onori di casa Gaetano Serafino, il farista, innamorato del suo gigante, che con amorevolezza non solo lo accura ma lo presenta ai tanti ospiti rapiti dalla sua maestosa possanza. In un giorno di maggio straordinario, in cui si sono aperte le porte del faro grazie al lavoro di Tina Ottavino, Enrica Simonetti, Stefano Cappelli e Nicolò Carnimeo oltre alla disponibilità di “Marifari Taranto”, centinaia di persone sono rimaste in fila, sotto a una pioggia battente, per salire i 380 gradini della scala a chiocciola che permette di raggiungere la lanterna a 66 metri d'altezza. "È un faro d'atterraggio, con una portata di 23 miglia", continua a ripetere Gaetano con pazienza sacerdotale. "Tre lampi in un periodo di venti secondi", è questa la litania luminosa di San Cataldo, che accompagna da un secolo e mezzo i marinai. Ancor più buio e silenzioso appare oggi il mare da lassù, se confrontato alle luci e ai rumori della città. Ancor più misterioso è l'Adriatico oggi se confrontato con Bari, che è parte di una ormai infinita riva urbana occidentale.
Al mattino il sole riprende prepotentemente la scena; calma di vento, cielo tersissimo e onde lunghe. Un nuovo travestimento oceanico per un Adriatico arlecchinesco, ieri nelle sembianze di un Baltico oggi di uno Ionio. Un Adriatico multiforme, dalle mille facce, di tanti colori, ribelle e imprevedibile, riottoso e picaresco. In una Bari domenicale e sorniona, c'è poco traffico d'auto e gran via vai di jogger e biker, di tutte le età e prestanze. Inglesismi necessari, per restituire abbigliamenti e portamenti ormai comuni su ogni lungomare d'Italia e del mondo. Ma qui, a quest'ora e in questa stagione, il paesaggio umano è ancora riconoscibilissimo, perché qui centinaia di persone rinnovano un rito alimentare antichissimo, anche se i bidoni hanno sostituito i canestri, se i colori del pvc non sono più quelli del vimini: l'arricciatura “du pulp”. C'è il vecchio pescatore con i calzoni rappezzati e arrotolati al polpaccio, la pelle cotta dal sole, la berretta blu e l'immancabile sigaretta che pende dalle labbra, ma c'è anche il ragazzino con calzoni e maglietta da rapper, cappellino storto NBA e cuffiette che ascolta “a palla” Mahmood. Stanno fianco a fianco, accomunati da ritualità antiche. Musicali, perché i polpi risuonano sugli scogli; gestuali, perché i polpi richiedono movimenti ripetuti. Un vero e proprio spettacolo, teatro-danza in riva al mare, su uno sfondo d'acque e arie d'incanto.
Purtroppo però il fondale adriatico, l'orizzonte adriatico si perde subito dopo il Molo San Cataldo, che delimita a nordovest l'ingresso del Porto Nuovo. È inaccessibile! Perché qui si alza il più orribile dei muri baresi, metafora di tutti i muri portuali italiani e mediterranei, che soprattutto negli ultimi vent'anni, da quel fatidico 2001, hanno accentuato l'estraneità dei porti dalle città, ne hanno fisicamente sancito una controproducente diaspora, con risvolti culturali e crediamo anche economici. Consapevoli che le necessità del lavoro, sicurezza e spazi in primis, vadano tutelate ma altrettanto convinti, con argomenti pratici, sentimentali e culturali, che almeno le dighe portuali possono e dovrebbero essere aperte alla città. Un'urgenza condivisa anche dall'urbanista Matteo di Venosa che, insieme ad altri, da anni lavora sul tema dei “porti come paesaggi”, progettando e realizzando “parchi portuali”. Luoghi in cui le necessità funzionali trovino un equilibrio, anche in divenire, con quelle estetiche. Luoghi in cui il lavoro marittimo e le sue infrastrutture siano un valore da conoscere e non da nascondere. Perché come è importante l'arte contemporanea, così è anche l'architettura contemporanea, non solo quella urbana, ma anche quella industriale e portuale.
Perciò i ricordi del flâneur qui a Bari vanno alla vicenda emblematica dell'ecomostro di Punta Perotti, abbattuto nel 2006, fantasticando che almeno si possano aprire dei varchi in questo più subdolo ecomostro, in questo demoniaco serpente di pietra e metallo che stringe il Porto Nuovo, che lo separa dalla città. I moli, tutti anche quelli moderni, sono degli straordinari affacci marini, luoghi in cui ritrovare una relazione intima con l'acqua e l'aria salata, camminando e, perché no, tuffandosi magari sul lato esterno, senza alcun pericolo, anzi con gioia, doppia per la riconquista del nostro mare quotidiano. Gioie che per altro proprio a Bari regala il Molo Sant'Antonio del Porto Vecchio. Un doppio affaccio, sull'immensità adriatica a est e sulla città e sul lungomare a ovest, con in testa il più bel fanale verde dell'Adriatico, un vero e proprio monumento razionalista. È lì in cima a quel molo che il perdigiorno decide di spogliarsi e tuffarsi per godere di quel mare quotidiano che bagna le nostre città, infrangendo un divieto, un piccolo gesto di disobbedienza civile. Una breve nuotata nelle gelide acque di maggio diventa una ritualità di comunione con l'Adriatico.
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