Brindisi, Punta Riso - Foto F. Fiori

Brindisi, Punta Riso - Foto F. Fiori

Nel suo peregrinare lungo l'Adriatico, Fabio Fiori torna a Brindisi, porta d'accesso di questo mare pieno di fascino e di luce. E un tuffo fuori stagione lo riporta a un saggio di Tonio Hölscher, su mare, cultura del corpo ed eros nella Grecia antica

01/12/2023 -  Fabio Fiori

“Brindisi! Questa città è un brindisi all'Adriatico che finisce o inizia, a un viaggio pelagico che termina o incomincia”, scrivevo qualche anno fa.

Brindisi! mi ripeto oggi aprendomi un peroncino ghiacciato, seduto sul basamento del fanale verde, in testa al molo Punta Riso. Sono tornato qui, ancora una volta per vedere questa straordinaria città dal mare, perché da qui, si vede meglio nel suo insieme, con le sue bellezze e nefandezze, dopo aver camminato per più di due chilometri verso il largo, in direzione est.

Questa maestosa diga, che vista dalle vecchie banchine portuali urbane riluce nel suo biancore al mattino, è anche una meravigliosa piazza acquea. In questo tardo pomeriggio di novembre invece i colori sono più caldi, mentre a ponente il tramonto è incendiario. Questa diga e una di quelle meravigliose piazze acquee mediterranee dove ritrovare una relazione sensoriale e spirituale con il mare. Ma anche una relazione carnale, tattile, se ci si spoglia e ci si tuffa, in barba ad assurdi divieti di balneazione. Assurdi perché gli spazi sono ampi e non c’è alcun pericolo, né ambientale (qui per altro le acque sono limpidissime) né legato alla sicurezza della navigazione. Perché sarebbe come vietare di camminare o correre lungo una strada, di fare ginnastica in una piazza.

Perciò con spirito libertario, fedele agli insegnamenti di Thoreau, maestro della disobbedienza civile e dell’ecologia necessaria, mi spoglio e mi tuffo. Le acque sono ancora tiepide, in questa lunghissima finestate. La superficie è appena screziata da un Libeccio che è una brezza amica. Faccio qualche bracciata e poi mi concedo una pausa. Pancia all’aria, gambe e braccia aperte. Lo sguardo rapito da due candide sterne che volteggiano in un cielo indaco. Risalgo sull’alta banchina e mi concedo qualche altro tuffo, rinnovando una gestualità antica e mediterranea.

Quella raccontata da Tonio Hölscher ne Il tuffatore di Paestum. Cultura del corpo, eros e mare nella Grecia antica, da qualche mese pubblicato da Carocci editore (pp. 132; 16 €). Un saggio fresco, come l’acqua che lo pervade, seducente come le immagini che lo arricchiscono a partire proprio dagli affreschi della omonima Tomba, rinvenuta durante gli scavi nelle necropoli dell’antica città di Paestum, la greca Posidonia, nel giugno del 1968.

Affreschi conservati al Museo archeologico nazionale, risalenti a 480 a.C., e che insieme agli altri trovati a Tarquinia e a tante altre immagini ceramiche dello stesso periodo, restituiscono tutta l’attenzione antica per il tuffo, il nuoto e i giochi acquatici.

Un’attenzione a cui spesso vengono attribuiti significati metaforici, legati alla morte o al mito, ma che secondo Hölscher si legano anche a vere passioni quotidiane, lì dove come in “nessuna altra regione del mondo antico terra e mare sono intrecciati”, lì dove si diceva degli uomini buoni a nulla che “non sanno scrivere né nuotare”.

Dodici capitoli, che idealmente rimandano numericamente ai mesi dell’anno e quindi alla ciclicità della vita, perché dalla Tomba si passa all’età giovanile di efebi e fanciulle, per poi parlare di adulti, eroi e dei, per ritornare infine al culto dei defunti, alle relazioni “con la cultura e lo stile di vita dell’antichità: le classi d’età e gli ambienti di vita, la cultura del corpo, l’erotismo”.

Tomba del tuffatore

Tomba del tuffatore

Una ciclicità che può avere anche una relazione strettissima con l’acqua, in quella eschatià che è il mare che bagna le nostre città. Una eschatià acquea e selvaggia, dove ritrovare un rapporto con la Natura, dove ritornare fanciulli per vivere una necessaria selvatichezza. Pagina dopo pagina, ci si tuffa in un mondo mitico di cui il mare è paesaggio archetipico e al contempo esperienziale. Così l’immagine del Tuffatore di Paestum assume per me un significato nuovo, diventando un invito a ritrovare l’aldiquà, i piaceri che il mare offre ogni giorno.

Esco dall’acqua e come in una favola di Esopo, m’appaiono in lontananza due delfini annunciatori di una necessaria riappropriazione delle acque urbane. Loro lo hanno fatto senza chiedere permessi, restituendo al porto esterno, con le isole Pedagne vietate!, la sua antica aura, legata a un plurimillenario intreccio di natura e cultura, di frequentazione animale e umana. Noi dobbiamo farlo, per rivivere e aggiornare i piaceri che anche le rive e le acque urbane possono regalare, qui come in ogni altra città mediterranea.


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