“The Happiest Man in the World” della regista Teona Strugar Mitevska è stato uno dei film più interessanti della recente Mostra del cinema di Venezia ed è candidato all'Oscar per la Macedonia del Nord
È stato uno dei film più interessanti della recente 79° Mostra di Venezia, dove era incluso nella sezione parallela Orizzonti, ed è candidato all’Oscar per la Macedonia del Nord. Alcune riviste americane danno “The Happiest Man in the World” di Teona Strugar Mitevska in grado di figurare nella prima lista di 15 titoli che sarà annunciata a dicembre e tra i quali sarà selezionata la cinquina di nominati alla statuetta per il miglior film internazionale. Una categoria che si annuncia combattuta (per l’Italia c’è “Nostalgia” di Mario Martone) e che vede tra i più in vista l’ucraino “Klondike” di Maryna Er Gorbach. Curiosamente i paesi dell’ex Jugoslavia, per quel che può contare, sono rappresentati da un gruppo di buoni titoli: per la Croazia c’è “Sigurno mjesto - Safe Place” di Juraj Lerotić premiato a Locarno e Sarajevo, per la Bosnia “Balada – A Ballad” di Aida Begić, per il Kosovo “Looking for Venera” di Norika Sefa, per la Serbia “Darkling” di Dusan Milić (già uscito nelle sale italiane) e per la Slovenia “Orkestar” di Matevz Luzar.
La macedone Teona Strugar Mitevska, nota soprattutto per “Dio è donna e si chiama Petrunya” del 2019 ma ormai con una carriera ventennale e titoli che hanno circolato molto nei festival come “How I Killed the Saint”, “I'm from Titov Veles” e “The Woman Who Brushed Off Her Tears”, racconta l’assedio di Sarajevo attraverso vicende di una coppia con l’aiuto della sceneggiatrice bosniaca Elma Tataragić.
Se “Dio è donna e si chiama Petrunya” era un film di pancia, “The Happiest Man in the World” è un film di testa, un film molto intelligente che forse colpisce meno a un primo impatto ma poi resta nella mente. Asja, consulente aziendale di 45 anni, è una single a Sarajevo. Si presenta a uno speed date in un grande albergo d’epoca jugo chiamato “Tocco della felicità”. Tra tutti i partecipanti, è l’unica a sapere già chi incontrerà, Zoran, bancario quasi coetaneo, serbo, che aveva combattuto la guerra con i serbo-bosniaci. Ed era stato il cecchino che l’aveva ferita alla schiena l’1 gennaio 1993. Asja non lo immagina, ma Zoran lo ricorda benissimo: aveva 18 anni e altri piani e fu mandato a sparare, gli dissero che era una fighetta se non l’avesse fatto, fu il suo diventare uomo. Faccia a faccia, i due dovranno fare i conti con il passato e con il trauma della guerra, ancora ben presente, come dimostrano anche le risposte degli altri convenuti, alle domande dei test preparati dall’organizzazione. Un film che colpisce per l’acutezza e per la precisione della scrittura e dello sguardo (anche nella parte della festa che sarà rivelatrice), oltre che per le interpretazioni convincenti di Jelena Kordić Kuret, Adnan Omerović, Labina Mitevska e Ksenija Marinković.
Al festival veneziano, nel quale il documentario americano “All the Beauty and the Bloodshell” di Laura Poitras ha vinto il Leone d’oro, non erano presenti film balcanici in concorso.
Tra i sette debuttanti della Sic – Settimana della critica c’era il serbo “Have you seen this Woman? - Da li ste videli ovu ženu?” opera prima di Dušan Zorić e Matija Gluščević con Ksenija Marinković, Isidora Simijonović, Boris Isaković e Jasna Đuričić.
Il film inizia con una lenta panoramica su un cantiere a Belgrado che si ferma su un palazzo e zooma sulla finestra dove si affaccia un uomo che ricorda che nel palazzo viveva Draginja Marinković, di 50 anni, scomparsa da cinque anni. E mostra l’appartamento dove viveva e dove ora vivono dei parenti. Seguono tre episodi slegati tra loro, tutti con una cinquantenne (sempre interpretata dalla brava Marinković) in tre diverse possibilità di vita, tutte con elementi surreali e quasi magici. È un film un po’ pirandelliano, basato su più identità, più fughe dalla realtà, anche se non necessariamente a buon fine. Forse il senso sta nell’ultima sequenza, di festa e semplicità, che potrebbe rappresentare un ritrovarsi in un altro luogo. Lo stile è un po’ sporco, spezzettato, per certi versi documentaristico, non è immediato entrarci o trovarci un appiglio.
L’Ucraina, che nell’ultimo periodo stava vivendo un momento cinematograficamente interessante, è stata al centro dell’attenzione, con una giornata dedicata, scandita da incontri e ospiti e ben tre film.
Nella sezione Orizzonti c’era “Luxembourg, Luxembourg” di Antonio Lukich, una commedia godibile dal respiro internazionale abbastanza rara nel panorama del cinema ucraino. Un film che sa di cinema jugoslavo: l’inizio sui treni fermi in stazione con i ragazzini che giocano ricorda molto i primi lavori del grande Goran Paskaljević. Il prologo è ambientato nel 1998, poi vent’anni dopo, con i due fratelli protagonisti Kolya e Vasya, diventati il primo autista di autobus e il secondo poliziotto. Due ragazzi figli degli anni ‘80 anche per storia familiare: il padre è jugoslavo, giacché la madre era andata in Jugoslavia a comprare vestiti dopo la svolta di Gorbacev e si era innamorata di questo uomo. Diventati adulti i due si ritrovano per vicende assurde a dover compiere insieme un viaggio in Lussemburgo, come suggerisce il titolo, anche con una componente illegale.
Ancora il documentario “Freedom on Fire: Ukraine Fight for Freedom” di Evgeny Afineevsky, un quadro della situazione dopo l’attacco russo del 24 febbraio, che rende molto l’idea della vita delle persone durante una guerra. Alcuni toni (anche nell’introduzione storica) sono un po’ nazionalistici, ma ci può stare dentro un lavoro ritmato che contiene molti spunti, storie e prospettive. Un film interessante nel suo cercare di contenere tante cose e così a caldo, mentre i fatti si succedono, mostrando immagini già passate nei telegiornali ed altre inedite, soffermandosi sugli accadimenti di Mariupol e Bucha, ma raccontando anche altre città. C’è il come sopravvivere, continuare a vivere o decidere di scappare durante un conflitto, e ci sono tanti ucraini che parlano di come vedono i russi e la Russia e lo fanno anche alcuni russi che vivono in Ucraina.
Un potente documentario sul passato che parla molto dell’oggi è “The Kiev Trial” di Sergej Loznitsa, il più importante cineasta ucraino, mal visto sia in Russia sia in patria per l’indipendenza delle sue posizioni. Il regista è un habitué di Venezia e realizza film a cadenza annuale, facendo insieme cinema, storia e politica. Con immagini d’archivio ricostruisce il primo processo contro ufficiali nazisti che si svolse nella capitale dell’Ucraina nel gennaio 1946. A processo andarono in 13, per i crimini compiuti tra il 1941 e il 1943, prima dell’arrivo dell’Armata rossa. Un montaggio rigoroso delle deposizioni degli imputati, le dichiarazioni dei testimoni e l’arringa del procuratore fino all’esecuzione delle sentenze. Un crescendo di intensità per guardare a un futuro in cui è tutto da ricostruire, pensato prima della guerra di Putin ma che fa riflettere sui crimini compiuti dagli aggressori. E anche sulla giustizia, con il finale choc con l’impiccagione in piazza dei condannati davanti alla folla. L’arringa del procuratore non è solo una richiesta di pene, ma un discorso sul futuro (“ricostruiremo questo paese”). E il potente documentario ovviamente parla dell’oggi, sul cosa fare dopo la guerra. L’opera di Loznitsa fa il paio con il bel “Argentina 1985” di Santiago Mitre che era in concorso e ricostruisce in finzione il processo ai generali della dittatura sudamericana.
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