Il sud-est Europa e la Turchia all'ultima Mostra del cinema di Venezia hanno raccolto numerosi riconoscimenti. Una rassegna
Un premio alla Turchia, uno al protagonista bosniaco di un film croato e parecchi riconoscimenti a un film serbo.
È stata una 71° Mostra del cinema di Venezia positiva per il sudest Europa, con premi inaspettati, mentre il bellissimo “Belye nochi pochtalona Alekseya Tryapitsyna – The Postman’s White Nights” del russo Andrei Konchalovskij ha avuto il Leone d’argento per la regia e si sono distinti alcuni film del Caucaso. La delusione è costituita invece da “The Cut” del tedesco d’origine turca Fatih Akin, già autore de “La sposa turca” e “Soul Kitchen”.
Romanticismo arrabbiato
Per la Turchia, già vincitrice della Palma d’oro di Cannes con “Winter Sleep” di Nuri Bilge Ceylan, un altro premio a coronamento dei suoi 100 anni di cinema. Il debuttante assoluto Kaan Mujdeci, unico esordiente del concorso che comprendeva 20 titoli, ha avuto il Premio della giuria per il romanticismo arrabbiato dell’undicenne Aslan, protagonista di “Sivas”.
In un villaggio dell’Anatolia centrale, il ragazzino, deluso per non aver ricevuto la parte del protagonista nella recita scolastica, si prende cura di un bellissimo cane di razza Sivas abbandonato agonizzante in un prato dopo un combattimento. Lo guarirà e lo farà tornare a combattere: una storia di riscatto e affermazione di Aslan nell’amicizia con il cane e attraverso i suoi successi.
Un film non privo di difetti, ma forte, con una regia energica, rivelazione di un talento innegabile. “Sivas” ha scene di lotta molto cruente e insistite: per questa ragione non è stato accolto molto favorevolmente da un pubblico sempre più disposto a indignarsi per le scene che coinvolgono animali mentre è quasi assuefatto agli orrori tra uomini sullo schermo. È anche un ritratto di una Turchia rurale diversa da quella presentata di solito nel festival: non ci sono migrazioni, non c’è la questione turca o il ricordo di massacri e dittature, solo il malessere esistenziale di un ragazzino inserito in un problema sociale non troppo esplicitato ma profondo.
1914
Quello di Akin, che uscirà in Italia per Bim Distribuzione nel 2015, vorrebbe essere un film epico che inizia nell’Anatolia orientale nel 1914. Gli inglesi sbarcano a Gallipoli e il fabbro armeno Nazaret (Tahar Rahim, già protagonista de “Il profeta”) è costretto a lasciare famiglia e villaggio e viene impiegato forzatamente a costruire strade. Sopravvive miracolosamente a un tentativo di sgozzarlo ma perde la voce.
Scampato alla guerra, trova rifugio ad Aleppo grazie a un commerciante di sapone incontrato lungo la strada. Qui scopre che le due figlie gemelle che aveva dovuto abbandonare sono ancora vive e le cerca in Libano e poi fin oltre oceano. La moglie invece non ce l’aveva fatta.
Una pellicola sul genocidio armeno e la successiva diaspora e soprattutto sull’ostinazione di un padre che non si arrende davanti a nulla pur di ricongiungersi alle figlie, ma una storia talmente piena di cose (e di inverosimiglianze) da rischiare il polpettone. Un lavoro riuscito a metà ma comunque attuale nel raccontare le persecuzioni delle minoranze e soprattutto coraggioso nel raccontare storie ancora poco accettate in Turchia, tanto da provocare polemiche accese e il rischio che “The Cut” non possa uscire nelle sale. Questo sforzo meritava però un risultato finale migliore, magari meno paure e compromessi e una libertà di mostrare e raccontare maggiore.
Queste sono le regole
Il premio di miglior attore per la sezione Orizzonti è andato al bosniaco Emir Hadzihafizbegović, protagonista di “Takva su pravila – These Are The Rules” del croato Ognjen Svilicić (noto per “Sorry For Kung Fu” e “Armin”).
Una storia familiare che tocca molti aspetti della vita. Un mattino l’adolescente Tomica fa rientro a casa in un anonimo quartiere popolare di Zagabria. Si chiude in stanza mentre il padre Ivo (Hadzihafizbegović) si prepara al turno come conducente nell’azienda di trasporto pubblico cittadino. La madre Maja (Jasna Zalica) svolge le normali faccende domestiche aspettando che il figlio si alzi. Passano le ore, il ragazzo non si muove e i genitori si preoccupano. Sembra che migliori, ma la situazione precipita, in ospedale non possono fare nulla e Tomica muore. Fa in tempo a far capire di essere stato picchiato da compagni di scuola. I genitori, anche contattando la sua ragazza, cercano di ricostruire l’accaduto e di individuare i colpevoli.
Un film sul lutto, l’elaborazione del lutto, il senso di perdita e il tentativo di reagire alle ingiustizie, magari scompostamente. Un buon lavoro, forse senza picchi e meno sorprendente di “Sorry For Kung Fu”, che conferma Svilicić tra le certezze del cinema regionale.
Caucaso e neorealismo
Molto bello dall’Azerbaijan, “Nabat”, secondo film di Elchin Musaoglu dopo “40th Door” del 2009, presentato sempre in Orizzonti. Una piccola, intensa storia ambientata durante un conflitto caucasico con uno stile che ricorda il neorealismo iraniano. E forse non a caso la protagonista è l’attrice iraniana Fatemah Motamed Arya, a Venezia anche in “Tales” di Rafshan Bani-Etemad.
Nabat è una donna di un villaggio, che vive in una casa isolata con il marito malato e ha l’unica fonte di sostentamento nella sua vacca. Regolarmente va a vendere il poco latte prodotto e a mantenere viva la memoria dell’unico figlio ucciso in guerra. I combattimenti avanzano, il rumore delle esplosioni si fa più vicino, il paese si spopola, lentamente tutti se ne vanno. Intanto il marito muore, Nabat lo deve trasportare e seppellire da sola, mentre intorno a lei fa la comparsa una lupa.
Un film di poche parole, di fatica, di testardaggine, di dolore trattenuto, con una componente di fantasmi e un piccolo grande miracolo della natura. Lupi quasi più umani degli uomini, uomini e lupi quasi uniti dalla guerra.
Il bambino e i lupi
Non troppo distante è uno dei temi forti della grande sorpresa rappresentata dal serbo “No one’s child – Ničije dete” di Vuk Ršumović vincitore del premio del pubblico della Settimana della critica riservata agli esordienti, del premio Fipresci della critica e del premio Fedeora per la miglior sceneggiatura.
Una storia durissima ispirata a un fatto realmente accaduto di un ragazzo trovato tra i lupi nei boschi di Travnik nel 1988 che arriverà a confrontarsi con la “civiltà”, in un istituto per ragazzi abbandonati a Belgrado, e poi con la guerra. Il film uscirà in Italia in aprile per Cineclub Internazionale con il titolo di “Figlio di nessuno”. Nella stessa sezione rientrava anche il documentario “Dancing With Maria” di Ivan Gergolet, coproduzione Slovenia / Italia / Argentina sulla straordinaria danzatrice argentina ultranovantenne Maria Fux e la sua scuola.
La Georgia, dopo i premi a Sarajevo e in altri festival, ha presentato l’opera prima “Kreditis limiti – Line Of Credit” di Salome Alexi in Orizzonti. Un film che prende il via da un problema molto diffuso nel paese: molte famiglie sono nelle mani delle banche e dei creditori perché incapaci di restituire i prestiti.
È la storia dell’affascinante quarantenne Nino, di famiglia agiata e numerosa, che conduce un piccolo negozio. Ora i soldi non bastano più, gli affari si sono ridotti, il padre che aveva una buona posizione durante l’Urss e garantiva il benessere a tutti non c’è più. È però difficile rinunciare allo status e alle apparenze, non mostrare, anche nella festa di compleanno della madre, i segni della decadenza.
“Kreditis limiti” racconta il precipitare della situazione, il crollo delle certezze, i tentativi di salvarsi che peggiorano solo la situazione. Una storia molto realistica raccontata con colori pastello e un tono quasi da filone poetico e astratto del cinema georgiano. Il tentativo di far coesistere le due cose funziona solo in parte, il film è abbastanza interessante ma non decolla mai, non ha un momento che cattura lo spettatore.
Prodotto e girato in Georgia, anche se ambientato in un Paese immaginario, è anche “The President” dell’iraniano Mohsen Makhmalbaf. Un apologo contro le dittature e contro chi le ribalta utilizzando nei fatti gli stessi metodi dei dittatori. Un anziano presidente, che si diverte a far accendere e spegnere tutte le luci della città per far divertire il nipotino ed erede, è costretto all’improvviso a fuggire per il crescere della rivolta e nascondersi con il piccolo. Dovranno cercare di sopravvivere in una nazione comunque militarizzata e in mezzo a ex sudditi prima fedeli e ora assetati di vendetta. La pellicola del regista di “Viaggio a Kandahar” è molto politically correct, ha più buone intenzioni che originalità però funziona abbastanza, soprattutto con alcune stoccate nell’ultima parte.
Fuori concorso è passato il film collettivo “Words With God” di nove registi alle prese con temi più o meno legati alle religioni coordinati dal messicano Guillermo Arriaga. Ci sono tra gli altri l’iraniano Bahman Ghobadi, l’israeliano Amos Gitai, l’indiana Mira Nair e il giapponese Hideo Nakata, con un episodio firmato da Emir Kusturica. Il regista serbo-bosniaco è anche protagonista del suo corto, scritto con la figlia Dunja, nella parte di un pope ortodosso che compie una sorta di miracolo delle pietre.
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