Mitrovica (nicotokio/flickr)

La Carovana “In Europa oltre i nuovi muri” 2011, progetto promosso e realizzato dall’Associazione Tenda per la Pace e i Diritti di Monfalcone ha fatto tappa a Mitrovica/ Mitrovicë, in Kosovo. Il racconto della scrittrice Melita Richter

09/08/2011 -  Melita Richter

E’ arrivata agitata all’appuntamento nei pressi del monumento di Madre Teresa nella parte sud di Mitrovica/Mitrovicë. Lei, albanese della enclave (parola tecnica per evitare di nominare il ghetto) albanese nella parte serba della città, visibilmente sconcertata non soltanto per la situazione incandescente di tensioni interetniche sprigionatesi in questa calda estate kosovara, ma per il fatto che uno degli addetti alle formazioni Kfor che presidiano il ponte sul fiume Ibar che taglia la città in due, voleva scortarla. “Dovrebbe scortarmi nella parte serba, non quando attraverso il ponte per giungere in quella albanese; qui nessuno minaccia alla mia sicurezza”, racconta senza fiato.

Ricucire i fili spezzati

Advija è un’operatrice dell’Associazione per la Pace in Kosovo. Lavora con bambini albanesi, serbi e rom. Non sempre insieme. L’esempio può essere la costruzione di un mosaico che i bambini preparano separatamente: un pezzo i serbi, un altro i rom e un altro ancora gli albanesi. Poi gli educatori ricompongono il quadro intero e il successo sta nel presentarlo infine a tutte le comunità, cercando di coinvolgere i familiari.

In questa città il rifiuto dell’altro etnicamente diverso, rancori e paure abitano negli adulti. Ma i bambini succhiano il midollo dei racconti intrisi di odio e di sentimento vendicativo. Albanesi cacciati dalla parte nord della città (sono rimaste sole 45 famiglie), serbi “migrati forzatamente” - un altro eufemismo caro agli esperti – dal sud del Kosovo e insediatisi nella parte settentrionale della città, la più vicina al confine con la madre patria. Un confine mai accettato, ignorato e ora incendiato. Infine, i rom che hanno seguito la sorte dei serbi, schierandosi nella guerra “dalla parte sbagliata” perché ingenuamente legati alla fede jugoslava. Di quella Jugoslavia titoista che a suo tempo aveva loro garantito diritti, scuole e la voce nel Parlamento. Tutto andato in fumo. Anche loro, i rom, sono accusati di aver bruciato le case dei propri vicini. Narrazioni che si tramandano alle nuove generazioni. La memoria è satura di verità contrapposte condite da pruriti revanscisti.

In questa cornice Advija cerca di ricucire i fili spezzati della comunicazione interetnica e, assieme ad altri pochissimi attivisti che operano sul territorio, crede ancora nella costruzione di una convivenza bruscamente interrotta dalla guerra e dai nazionalismi estremi domiciliati in città. Lavoro arduo, fatica immensa che sistematicamente viene annullata, come in quel tragico 2004 quando morirono bambini albanesi nel fiume Ibar fuggendo davanti alle minacce serbe, un episodio mai del tutto chiarito al quale è seguito un vero “pogrom” dei serbi sul vasto territorio del Kosovo che non ha risparmiato neppure i monumenti religiosi. O, per fare un passo addietro, quando l’anno precedente, nel 2003 vennero uccisi due ragazzi serbi dell’enclave Goraždevac nelle vicinanze di Peć/Pejë.

La ruota del Rashomon kosovaro potrebbe girare all’infinito e la cronistoria sulla pulizia e contro-pulizia etnica non potrebbe essere supportata da dati precisi. Ancora dai tempi delle grandi migrazioni descritte magistralmente dallo scrittore Miloš Crnjanski, queste terre sono state soggette a mutamenti ciclici e violenti di presenze serbe e albanesi.

L'illusione ortodossa

Gigantografie a Mitrovica

Gigantografie a Mitrovica

Oltrepassiamo il ponte con l’evidente sorpresa della polizia albanese e il nulla osta delle forze Kfor formate da sloveni. Gambe divaricate, elmi in testa, mitra in mano e uniformi mimetiche, gli sloveni piantonano il ponte. Il sole brucia a 36 gradi. Penso che sognano le fresche montagne slovene mentre svolgono il proprio ruolo intermediario. Sono le due, abbiamo un'ora di tempo per visitare la parte serba della città. Avdija ci spiega che il giorno dell’uccisione del poliziotto albanese era stato proclamato il coprifuoco. Alle ore 15 chiudevano le botteghe, gli uffici, i bar. Gli uomini stavano all’allerta da una e dall’altra parte. Ci consiglia di attraversare il ponte prima. Per la giornata odierna, il 29 luglio, il coprifuoco non è stato confermato, ma, “non si sa mai… visto che si è parlato pure di cecchini”. La parola che è meglio evitare prima che dal fantasma diventi realtà. Come è successo a Sarajevo. Non crediamo a uno scenario simile, non ci crede neppure lei.

Dall’altra parte del fiume, gli stessi edifici decrepiti che non hanno visto ombra di manutenzione dai tempi della costruzione. Agli angoli delle vie ci fissano le tante facce di Šešelj considerato vittima innocente di una criminalizzazione internazionale. Si legge: “Šešelj libero! La tirannia dell’Aia”. Se i poster inneggianti al personaggio Šešelj accusato dal Tribunale dell’Aja per crimini di guerra sono sbiaditi, le scritte che glorificano Ratko Mladić, sono fresche. Le strade bruciano deserte al sole, ma l’alito pesante dell’estremismo serbo si respira. Gli elicotteri rombano in cielo. Gli uomini in camicia bianca seduti all’ombra del platano preferiscono non esprimere le loro opinioni. Sul muro di fronte, le gigantografie di Koštunica, Putin, Medvedev, Janukovič, Lukachenko e la grande scritta che sigilla la solidarietà serbo-slava. L’eterna illusione serba che i fratelli di fede ortodossa e la madre patria Russa possano fare qualcosa per la loro causa. Un sogno, una pretesa, un inganno ormai secolare.

Voglia di vivere

Qualche via più in là nei bar c’è gente seduta a sorseggiare la birra Jelen, discorre, gioca a scacchi. Alcuni sono pronti a scambiare due parole, si scherza. A sentire che arriviamo da Trieste intonano il solito “Trst je naš” e ricordano i tempi migliori quand’anche essi potevano viaggiare senza visto e uscire da questo limbo di terra trasformato in una prigione. Sulla tensione attuale sembrano rassegnati. “Sono 12 anni che viviamo in tensione, per noi questa è la vita. Ma la situazione attuale è seria. Molto seria. Si tratta del nostro destino. Esso non sta nelle nostre mani. Sono sempre i politici, quelli d’altrove, d’oltre Oceano, che tengono i fili. Non noi. Come del resto da voi, non è mica Berlusconi che dispone del destino dell’Italia.” L’allusione agli americani è chiara. L’interlocutore cambia il discorso avvertendo che potrebbe prendere una dimensione più spessa e suggerisce di prepararsi a tifare per l’imminente partita di pallanuoto tra Italia e Serbia. Non insistiamo, siamo soddisfatti di aver trovato chi ha voglia di vivere una normale quotidianità, all’ombra degli alberi, giocando, bevendo un caffè, un succo di višnje e sognando di viaggiare liberi.

E di chi, come Avdija, non teme di attraversare i ponti, reali e quelli della soffocante fabbricazione etnica. Ci accompagnerà di nuovo all’altra sponda. Lì si siederà in un bar che frequentano anche i pochi serbi rimasti della parte sud della città. Alle tre in punto salirà sull’unico bus che in orario di cadenza prestabilita porta gli abitanti di questa città ferita dall’altra parte del fiume. Prima di lasciarci, ci indicherà le macchie sull’asfalto. Sembrano normali tracce di sporcizia urbana. Sono i residui delle candele che hanno arso tutta la notte in ricordo del poliziotto ucciso dai rivoltosi serbi. Si chiamava Enver Zymberi. Proclamandolo l’ultimo martire della patria, il Primo ministro Hashim Thaci sentenziava dai canali Tv albanesi: “Non vi è più lo status quo. Nessun passo indietro.”

Lasciamo la città con una sensazione di disagio penetrato nelle ossa. Non a causa della consapevolezza che quanto sta succedendo in questi giorni sul confine tra la Serbia e il Kosovo, che dista solo un'ora e mezza dalla città, faccia parte di un contesto politico internazionale molto più ampio di quello che i cittadini rinchiusi nelle loro gabbie etniche possano pensare di governare, ma per la palpabile uccisione di una città che vive l’amputazione obbligata di una parte di sé, attraversata da un ponte deserto, senza anima, senza traffico, carico di militari e carri blindati pronti al peggio. Mitrovica /Mitrovicë, specchio del Kosovo.


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