Fallito l'ennesimo round negoziale tra Pristina e Belgrado si avvicina con tutta probabilità il momento della dichiarazione di indipendenza del Kosovo. Una rassegna sulle posizioni in merito di alcuni dei principali analisti politici della regione
L'ultimo round di colloqui tra le delegazioni di Pristina e di Belgrado, condotto dai negoziatori internazionali della cosiddetta troika, (USA, UE e Russia) è terminato con un nulla di fatto. A Baden, in Austria, entrambe le delegazioni sono rimaste grosso modo sulle stesse posizioni che avevano in precedenza. Belgrado ha cercato in extremis di proporre il massimo dell'autonomia, mentre Pristina non si è mossa di un millimetro dalla richiesta di indipendenza.
Per la maggior parte degli analisti l'insuccesso dei negoziati guidati dalla troika non è certo una sorpresa. L'attenzione generale ora si volge al dopo 10 dicembre, data prevista per la stesura del rapporto sui negoziati che la troika presenterà al Segretario generale dell'ONU Ban Ki Moon.
È ormai opinione diffusa che il prossimo anno il Kosovo dichiarerà l'indipendenza. L'incertezza riguarda i tempi più che il fatto stesso. Alcuni parlano di gennaio, altri di marzo. Ciò su cui la maggior parte degli analisti concorda è che la proclamazione unilaterale di indipendenza da parte di Pristina dovrà avere l'avvallo di Washington e Bruxelles. Quest'ultima, fino a poco tempo fa minacciata da divisioni interne, sembra ora aver raggiunto maggiore unità. Per il momento gli unici che dichiaratamente non riconoscerebbero l'indipendenza del Kosovo pare siano Cipro e la Grecia.
Secondo l'analista Tim Judah, la quasi unanimità in seno all'UE è dovuta in buona parte al timore del ruolo che la Russia sta giocando nei Balcani, in particolare in Serbia, Kosovo e Bosnia Erzegovina. "Ciò che sembra essere accaduto è che la maggior parte dei paesi che non avevano una chiara posizione sull'indipendenza del Kosovo o che le si opponevano, si sono allarmati parecchio dal modo in cui la Russia ha mostrato di volere usare questa questione come mezzo per dividere e indebolire l'UE", scrive Judah in una sua recente analisi.
L'orientamento di Belgrado verso la Russia quindi appare essere risultato controproducente. Secondo Ivan Vejvoda, già consigliere per la politica estera di Zoran Djindjic e attuale direttore del Balkan Trust for Democracy, in caso di proclamazione unilaterale di indipendenza "alla Serbia, non resta molto, oltre a dichiarare non valida la decisone di Pristina e farlo sapere mediante i canali diplomatici a quei paesi che hanno riconosciuto l'indipendenza".
La Serbia starebbe in effetti preparando un "piano di azione" in caso di dichiarazione unilaterale di indipendenza. Ma in realtà le mosse che Belgrado potrebbe fare non sono molte. Potrebbe interrompere i rapporti con l'UE e la maggior parte dei paesi che riconosceranno l'indipendenza e rivolgersi a Mosca per rinforzare la partnership e destabilizzare la regione.
Ma per la Serbia tale ipotesi non sarebbe affatto vantaggiosa. Basti pensare all'accordo di recente firmato tra il vicepremier serbo Bozidar Djelic e il direttore della Commissione europea per i Balcani occidentali della Direzione generale per l'allargamento Pierre Mirel. Quest'ultimo prevede che la Serbia riceva entro il 2011 un miliardo di euro dai fondi di preaccessione dell'Unione europea. Si tratta del maggior aiuto senza condizioni e a fondo perduto che la Serbia abbia mai ottenuto. E se entro la fine dell'anno prossimo la Serbia dovesse diventare paese candidato all'UE tale cifra potrebbe anche raddoppiare.
Come sottolinea il giornalista del belgradese "Vreme" Dejan Anastasijevic, "la Serbia può anche colpire i piccoli paesi della regione, come il Montenegro e la Macedonia, imponendo delle restrizioni commerciali e abbassando l'intensità delle relazioni diplomatiche. Ciononostante il danno per questi ultimi sarebbe limitato ed anzi queste misure potrebbero addirittura spiengere Bruxelles a far procedere più velocemente questi paesi verso una piena integrazione nell'UE per stabilizzare la regione. E la Serbia diverrebbe di nuovo più vulnerabile alle sanzioni imposte dall'UE".
Anche per quanto riguarda la Bosnia Erzegovina (BiH) non è affatto scontato che il premier della Republika Srpska (RS), entità della BiH, sia disposto fino in fondo ad accogliere gli ammiccamenti di Belgrado. Lo stesso Dodik, come confermato dall'inviato del parlamento europeo per il sud est Europa, Doris Pack, ha recentemente firmato una lettera con la quale si impegna a non ricorre al referendum per la separazione della RS dalla BiH in caso di indipendenza del Kosovo.
Certo lo scenario che si prospetta dopo il 10 dicembre non è dei migliori. La possibilità, come da più parti annunciato, che possano verificarsi disordini e violenze non è remota, ma pensare ad una nuova guerra nei Balcani sembra inverosimile.
I rischi maggiori riguardano la presenza della comunità serba in Kosovo. Una fuga in massa dei serbi del Kosovo, oltre che creare una drammatica situazione per la popolazione, sarebbe tra le più gravi sconfitte della comunità internazionale nei Balcani.
Un altro aspetto da tenere in considerazione è la possibilità, annunciata da Oliver Ivanovic, leader della Lista serba per il Kosovo e Metohija, che nel caso in cui "l'Assemblea del Kosovo dovesse dichiarare l'indipendenza, è certo che si rinforzerà la tendenza a far sì che il nord del Kosovo non la riconosca e proclami la separazione dal resto del Kosovo".
Non a caso l'ex ministro degli Esteri serbo, ora funzionario del Patto di stabilità, Goran Svilanovic, ha dichiarato che "anche se dovessero proclamare l'indipendenza, noi dobbiamo insistere sulla continuazione dei colloqui con Pristina perché là vivono delle persone. Qualunque cosa accada, se dovessimo interrompere i colloqui sarebbe solo a svantaggio dei serbi e dei loro interessi".
Non da ultimo bisogna tenere presente anche le imminenti elezioni presidenziali della Serbia. Il rischio che porta con sé l'indipendenza del Kosovo è la possibile radicalizzazione della società su posizioni nazionaliste. Il rivale dell'attuale presidente Tadic sarà il segretario del Partito radicale serbo, Tomislav Nikolic. Favorito resta il primo, ma tutto può ancora accadere.
Il timore delle cancellerie occidentali, sottolinea ancora Tim Judah, è proprio la vittoria di Nikolic alle presidenziali del prossimo anno, perché si avrebbe il rischio di "perdere la Serbia". Mentre la rielezione di Tadic, dopo un periodo di irritazione per la perdita del Kosovo, potrebbe far ripartire il paese verso l'integrazione euro-atlantica. Motivo per cui le diplomazie occidentali potrebbero convincere Pristina a rinviare di qualche mese la proclamazione di indipendenza, dando così il tempo a Tadic di reinsediarsi alla poltrona presidenziale.
Forse se Belgrado fosse arrivata qualche anno fa con le soluzioni che ha proposto di recente è probabile che avrebbe avuto più chance per renderle effettive. Oggi, a quanto pare, lo spazio per soluzioni creative sembra ormai del tutto impraticabile.
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