Un breve reportage di Davide Sighele, dell'Osservatorio sui Balcani, da Gorazdevac, enclave serba in Kosovo occidentale. Alcune impressioni in seguito al funerale dei due giovani serbi uccisi lo scorso 13 agosto.
Gorazdevac s'allunga lungo una via principale. Qualche chilometro e lo si è percorso tutto. Quella strada è stata in questi anni il passeggio dei giovani rimasti rinchiusi nell'enclave, l'unico posto dove si poteva guidare una macchina con la vecchia targa della Serbia, ma anche la via più comoda per gli abitanti albanesi dei villaggi attorno per raggiungere Peja/Pec, la capitale della regione. Negli ultimi anni vi passavano senza grandi problemi e molto rari erano stati gli incidenti. Anche se nessuno si fermava in quella manciata di chilometri dell'enclave.
Poi i colpi di mitragliatore sul gruppo di ragazzini serbi che facevano il bagno in un torrente che scorre ai margini di Gorazdevac e quella strada di nuovo chiusa. Per arrivare a Pec/Peja gli albanesi residenti attorno al villaggio serbo hanno ricominciato a girare attorno all'enclave. Ed i pochi serbi che grazie al lavoro di alcune associazioni avevano ricominciato ad uscire dall'enclave sono stati costretti nuovamente a rinchiudersi in quella piccola prigione.
Quella strada è stata percorsa due volte dai cortei funebri di Ivan e Pantelja, i due ragazzini rimasti uccisi nell'agguato. I loro funerali hanno rappresentato un'immagine disperante di cos'è attualmente il Kosovo.
"Mauro, dimmi, cos'è successo a Gorazdevac?". Mauro Barisone è il coordinatore sul campo del Tavolo trentino con il Kosovo. E' a Pec/Peja da alcuni anni ed erano molti i progetti avviati con ragazzi serbi ed albanesi. Alcuni di questi ultimi lo fermano per strada, la mattina, mentre va a fare colazione. Sono passati due giorni dall'attentato a Gorazdevac ma le notizie in città ancora non sono chiarissime e loro allora chiedono a Mauro. "E' un disastro per noi albanesi, proprio non ci voleva". Parlano senza timori in serbo. Negli anni dell'immediato dopoguerra non era possibile. Ora la situazione è per alcuni aspetti molto più rilassata. Tra le strade di Pec/Peja sembra nulla sia successo. Ma sono molti quelli preoccupati per quanto avvenuto. Tengono però i propri timori nascosti.
"Quanto successo è drammatico" racconta Mauro ad alcuni volontari italiani che hanno deciso di trascorrere la loro estate in Kosovo collaborando in progetti volti a promuovere la convivenza nell'area. Ivan, uno dei due ragazzi uccisi, aveva partecipato in passato ad alcune attività del Tavolo trentino per il Kosovo. "La mia prima reazione è stata di rabbia ed ho avuto la tentazione di mollare tutto. Ma se però crediamo che si possa ancora fare qualcosa e che quanto abbiamo fatto sino ad ora non è stato inutile dobbiamo andare avanti. Non certo però con lo stesso approccio del passato", continua Mauro. Alla fine della riunione si decide di sospendere per tre giorni le attività del Centro giovanile multietnico da poco creato in città e di contattare immediatamente i ragazzi albanesi con i quali si collabora per passare un po' di tempo con loro. E, se possibile, discutere di quanto è avvenuto nell'enclave serba.
Contemporaneamente alcuni volontari sono già a Gorazdevac, dove in questi giorni dormivano, per assistere ai funerali e per incontrare, se questi ultimi lo desiderano, anche i ragazzi serbi che negli ultimi anni hanno collaborato con il Tavolo. "Sarà difficile parlare con gli abitanti di Gorazdevac" afferma Fabrizio "sono anni che cerchiamo parlando con alcuni di loro di decostruire le posizioni ideologiche assunte contro la comunità albanese ... e poi succedono fatti gravi come questi. Sarà difficile ritornare con loro ad affrontare alcuni argomenti".
"In questi anni ho riscontrato molta disponibilità da parte albanese al dialogo. Meno da parte della comunità serba. Viene per esempio dato sempre per scontato che la lingua che deve essere parlata per comprendersi sia il serbo" continua Mauro "ma basterebbero alcuni segni di disponibilità da parte dei serbi per sciogliere molte delle riserve albanesi. Ad esempio i serbi devono rendersi conto che vivranno in Kossovo in un ambiente permeato anche della cultura albanese. Perché allora non imparare la lingua dei propri vicini?".
A Gorazdevac intanto gli amici, i parenti ed il villaggio intero si sono stretti attorno ad Ivan e Pantelja. Il corteo funebre, secondo la tradizione ortodossa, è partito dalle case dei due ragazzi dove si è svolta parte della cerimonia. I familiari dei due ragazzi a versare acqua agli ospiti accaldati dal sole ancora alto nel cielo. Poi a bara scoperta e tra i lamenti strazianti delle donne del villaggio ci si è recati nei due cimiteri posti ai due lati del villaggio. Un migliaio di persone, in prevalenza vestite di nero. Ad interrompere l'uniformità del lutto i fiori freschi portati da ragazze e ragazzi e raccolti nei giardini delle case del villaggio. L'estate ha regalato fiori veri e non di plastica.
Poi le divise delle centinaia di poliziotti internazionali presenti. Da quelle viola della polizia indiana a quelle blu dei poliziotti svedesi e quelle verdone dei militari argentini. Militari controllavano i boschi ed i campi attorno alla strada. Ma nonostante i muscoli, i giubbotti antiproiettile e le armi in dotazione quella presenza era una forte dichiarazione d'impotenza. Nessuno ha saputo evitare quanto accaduto a Gorazdevac e nessuno riuscirà a farlo. Non può infatti la sola presenza internazionale (sempre tra l'altro più contestata) garantire uno stato di diritto e la sicurezza dei cittadini kosovari. Non lo possono fare i carabinieri italiani presenti in Kosovo per missioni spesso non più lunghe di alcuni mesi ed inseriti in un contesto che non è il loro. Non lo possono fare le forze di polizia di altri Paesi. Perché il vero controllo possibile è anzitutto quello sociale. La lunga teoria di jeep dell'UNMIK Police che seguiva il corteo funebre, i loro motori fastidiosamente accesi anche durante le esequie, i blindati della KFOR ad ogni incrocio, certo sono stati utili per garantire la sicurezza del Premier serbo Zivkovic, presente alla cerimonia funebre, o del vice rappresentante dell'UNMIK. Appaiono invece tragicamente ridicoli se si pretende che siano sufficienti a tutelare i destini dei cittadini kosovari.
Trascorse alcune settimane di Gorazdevac si continua a parlare. Delle tombe dei ragazzini se ne è fatta una questione politica. Il premier kossovaro Bajram Rexhepi voleva negli ultimi giorni visitarle ma non ha potuto. Si sono opposti sia gli abitanti di Gorazdevac sia i politici da Belgrado. Ed all'interno della comunità albanese è profondo il dibattito tra chi ancora s'ostina a sottolineare che i responsabili della strage non sono ancora stati individuati e quindi potrebbero non appartenere alla comunità albanese e chi invece si è in modo netto dichiarato contro la violenza polemizzando anche contro il Presidente del Kosovo Rugova che avrebbe esitato troppo a mettersi in modo incondizionato dalla parte di questi cittadini del Kosovo colpiti da un così profondo lutto. I funerali a Gorazdevac hanno dato del Kosovo un'immagine ancora disperante ma certo non in termini assoluti. Resistono infatti alcuni segnali di un futuro possibile. Tra i più forti il fatto che sempre più membri della comunità albanese inizino a considerare sinceramente anche gli appartenenti alla comunità serba cittadini kosovari.
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