Una maggioranza albanese, una minoranza serba. Il Kosovo non è solo questo. Lo racconta Eva Ciuk, giornalista e regista di Trieste. Il suo documentario, RealitieS Kosova/o, parla delle minoranze spesso dimenticate. Verrà proiettato per la prima volta a Gorizia, città di confine e dall'identità multipla, il prossimo 22 marzo. Una nostra intervista
Kosova/o, fin dal titolo del documentario emerge la difficoltà del districarsi nel politically correct parlando di Kosovo ...
E' impossibile essere politically correct in Kosovo. E' facile esserlo nei documenti, negli interventi ufficiali ... ma nella vita quotidiana è un'altra cosa. Anch'io faccio parte di una minoranza, quella slovena in Italia, e so cosa significa bilinguismo. Mi sforzo di utilizzare in molte occasioni le due lingue ma non è facile. In una situazione estremizzata come quella del Kosovo è ancora più difficile. In Kosovo occorre sempre pensare con che persona stai parlando, se con un serbo o un albanese, o un membro di un'altra minoranza. In realtà nessuno ti fa problemi - soprattutto se sei internazionale - ma ti viene fatto sempre notare ad esempio se utilizzi con un albanese termini serbi e viceversa. Essere completamente politically correct in Kosovo è impossibile. Porterebbe alla schizofrenia ...
Spesso l'essere politically correct è una fissazione degli internazionali che vivono in Kosovo ...
Si, ma non esente da contraddizioni. Prima di partire avevo studiato attentamente la situazione in Kosovo. Documenti, libri, articoli di giornale. Ma poi altra cosa è vedere le cose con i propri occhi, sentire sulla propria pelle l'atmosfera che si respira. La comunità internazionale, almeno formalmente, nei documenti, è sempre molto politically correct ... ma quando poi cammini per strada e vedi le bandiere della NATO o quelle dell'Unione europea o delle Nazioni Unite affiancate alla bandiera albanese e non alle altre rimani perplesso. Gli albanesi sono senza dubbio la maggioranza ma esistono anche altre comunità che vivono in Kosovo.
Rom, ashkali, egiziani, gorani, turchi, sono nomi che, in riferimento al Kosovo, si leggono quasi esclusivamente sui documenti ufficiali di qualche agenzia internazionale. Eppure queste minoranze rappresentano circa il 10% della popolazione del Kosovo. Perché se ne parla così poco?
Il Kosovo ha fatto parte in passato e formalmente fa tutt'ora parte dell'Unione Serbia e Montenegro ed ha una popolazione maggioritaria albanese. Il contrasto tra serbi ed albanesi ha caratterizzato la storia di quest'area geografica. E le altre minoranze sono sempre state vittime di questa polarizzazione. O eri dalla parte dei serbi, ed allora in un certo periodo subivi dagli albanesi, o eri dalla parte degli albanesi e subivi dai serbi. Molto spesso le persone che ho intervistato si definivano vittime di questa contrapposizione. Pur non desiderandolo erano obbligati a schierarsi, o da una parte o dall'altra. Anche negli ultimi 5 anni di amministrazione internazionale ci si sta focalizzando quasi esclusivamente sullo status giuridico futuro del Kosovo, questione molto cara sia a serbi che albanesi, ma si dimenticano le altre minoranze, i cui problemi non sono certo una priorità né per i serbi, né per gli albanesi e neppure per gli internazionali che ascoltano un po' i primi ed un po' i secondi.
Nel realizzare questo documentario quale è stata la difficoltà maggiore che hai riscontrato?
Senza dubbio far parlare le persone che incontravo. Molte ferite sono ancora aperte ed inoltre gli appartenenti a queste minoranze sono stufi di essere etichettati, classificati e spinti in identità rigide. Sono inoltre stufi di giornalisti che passano, promettono qualsiasi cosa per strappare un'intervista o qualche immagine e poi scompaiono nel nulla. Questo è vero soprattutto per i rom, ritenuti spesso i più "fotogenici" e che da sempre rappresentano un argomento interessante. Vi è inoltre la paura di esporsi e di parlare. Ripeto, le ferite sono ancora aperte e la gente non affronta certi argomenti.
Come sei riuscita a superare queste difficoltà?
E' stato molto utile il confronto con alcune ONG che mi hanno supportata, guidata ed aiutata ad entrare in contatto con le persone che ho poi intervistato. Abbiamo discusso molto nei periodi di mia presenza in Kosovo. In più occasioni mi hanno detto che domande dirette come quelle che facevo io non le avevano mai fatte pur lavorando con pazienza e determinazione per superare queste divisioni tra le varie comunità che abitano il Kosovo. Io ho fatto domande dirette perchè quello era il mio lavoro. E la gente ha parlato. Anche perché non mi sono presentata con telecamera e cartellina. Prima di iniziare a girare il documentario ho fatto un giro per tutto il Kosovo per conoscere le persone che volevo intervistare, per farmi conoscere e per spiegare la natura del progetto che stavamo realizzando. Non uno show televisivo, ma un video che potesse sensibilizzare sulla situazione in Kosovo. Ho anche discusso con loro sull'importanza che aveva rendere pubbliche all'estero, ma anche in Kosovo, le loro testimonianze. Abbiamo parlato molto con la gente, quasi un lavoro da psicologi. Le interviste poi non sono state improntate sulla domanda-risposta. Volevo che le testimonianze della gente che ho incontrato rappresentassero veramente ciò che loro volevano raccontarmi delle loro vite e del Kosovo. In modo spontaneo. Sino ad ora si sono ascoltati sul Kosovo interventi di analisti, ricercatori, politici, specialisti dei Balcani, giornalisti ma la gente ha parlato poco. Se lo ha fatto ha spesso risposto a domande in parte manovrate. Chi le poneva sapeva già che risposte voleva ottenere.
Il tuo appartenere ad una minoranza, la tua identità complessa, ha influito su questo documentario?
Diciamo non direttamente sulla sua realizzazione. Ha influito naturalmente sulla fase precedente. In passato ho studiato in Spagna ad un corso di specializzazione post-universitaria di cooperazione allo sviluppo. Si parlava di molte zone del mondo quali l'Africa, l'America latina, senza però mai nominare i Balcani. Ed io me ne stupivo. Prima di occuparmi, nel mio lavoro, di analizzare ad esempio una tribù in Africa o cose del genere, ho sentito l'esigenza di capire cosa succedeva al di là di quella frontiera che passava proprio vicino a casa mia. Vivo a Trieste e sono nata a Gorizia, una città divisa da una frontiera. Tutto ciò che è accaduto dall'altra parte mi ha sempre molto coinvolta. Ho frequentato scuole bilingui dove, quando ancora esisteva la Jugoslavia, conoscevamo ed in parte seguivamo anche le festività, le celebrazioni, gli eventi politici e culturali che avvenivano oltre confine.
In questo documentario vi sono musiche dei Zuf de Zur e dei Kosovni Odpaki, gruppi del Friuli Venezia Giulia che hanno fatto del meticciato, dell'incontro tra culture, dell'attraversamento dei confini la loro bandiera ...
Ci sono anche i Kapsamun, un gruppo di kosovari albanesi che stanno rivisitando in chiave contemporanea la tradizione musicale delle loro terre. Nella colonna sonora mi sembrava interessante inserire qualche contributo della nostra regione, della nostra terra. I Zuf de Zur ed i Kosovni Odpaki sono pregni, nel loro repertorio, della tradizione musicale balcanica. La canzone che chiude il documentario, dei Kosovni Odpaki, è intitolata Balkan Express. Racconta di un rifugiato di una delle tante terre della ex Jugoslavia, costretto a fuggire. Nei Paesi che prima erano casa sua si ritrova improvvisamente straniero, diverso. La gente fa finta di non capirlo più. Arriva ad esempio in Croazia e lo rifiutano, va in Slovenia e questi gli rispondono che non fanno più parte dei Balcani ... mi è sembrato interessante trovare grazie a questi due gruppi una musica che si avvicinava molto al messaggio che cerco di trasmettere in questo documentario.
Vai ad un'intervista radio a Eva Ciuk realizzata da Amisnet
RealitieS
Kosova/o
regia EVA CIUK
musiche KAPSAMUN, ZUF DE ZUR, KOSOVNI ODPAKI
sceneggaitura EVA CIUK
montaggio GIANANDREA SASSO
produttore esecutivo NOEMI LAKOVIC
progetto grafico ALESSANDRO PERISUTTI
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