La demarcazione del confine col Montenegro è diventata in Kosovo uno dei principali motivi dello scontro feroce tra maggioranza e opposizione. Un'analisi
Quest'articolo è frutto di una collaborazione editoriale tra l'Istituto Affari Internazionali e Osservatorio Balcani e Caucaso
26 agosto 2015: a Vienna, i rappresentati diplomatici di Montenegro e Kosovo – ex provincia serba dichiaratasi indipendente da Belgrado nel 2008 – firmano un accordo sulla demarcazione della linea di confine che divide le due giovani repubbliche lungo le cosiddette “Montagne Maledette” (Prokletije). La parola passa quindi ai parlamenti nazionali, che devono ratificare l'intesa. In Montenegro la questione viene rapidamente risolta: a fine dicembre 2015 l'assemblea nazionale di Podgorica approva infatti a larghissima maggioranza.
La battaglia di Vetëvendosje
In Kosovo, però, le cose vanno diversamente. Nel parlamento di Pristina, con maggioranza e opposizione già ai ferri corti, la demarcazione del confine col Montenegro diventa oggetto di polemiche violentissime. Secondo i principali partiti di opposizione, con in testa il movimento radicale Vetëvendosje (Autodeterminazione), la linea di confine concordata a Vienna (lunga circa 80 chilometri) sottrarrebbe al Kosovo più di 8mila ettari di territorio. La frontiera proposta sarebbe infatti basata non sulle mappe che definivano il territorio kosovaro secondo la costituzione jugoslava del 1974, ma su quelle volute dal leader nazionalista serbo Slobodan Milošević che nel 1996 avrebbe “ridotto” il Kosovo a favore del vicino Montenegro.
Lo scontro sulla frontiera si è quindi aggiunto alle diatribe sulla spinosa e irrisolta questione della creazione di un'Associazione delle municipalità serbe in Kosovo, parte fondamentale degli accordi di normalizzazione dei rapporti tra Serbia e Kosovo facilitati dall'Unione europea e sottoscritti a Bruxelles nell'aprile 2013, ma invisi all'opposizione che parla di creazione di un'entità in grado di sabotare il funzionamento della nuova repubblica e del pericolo di “bosnizzazione del Kosovo”.
La battaglia politica ha presto assunto toni parossistici sia dentro che fuori dall'aula parlamentare e ha raggiunto le pagine dei media internazionali quando l'opposizione ha inaugurato tattiche ostruzionistiche estreme, come la ripetuta esplosione di fumogeni in parlamento per sospendere il dibattito.
A conferma dell'alto grado di tensione, il 4 agosto 2016, due giorni dopo l'ennesima seduta dedicata alla demarcazione del confine, una bomba è stata lanciata contro la sede del parlamento a Pristina. Alcuni giorni dopo un altro ordigno, stavolta neutralizzato dalla polizia kosovara, è stato rinvenuto nei pressi dell'abitazione di Murat Meha, direttore della commissione statale che si occupa della definizione del confine. Nei giorni seguenti, sei attivisti di Vetëvendosje sono stati arrestati con l'accusa di essere i responsabili degli attacchi.
Più concessioni per l’Associazione delle municipalità serbe in Kosovo
Le conclusioni di una commissione internazionale di esperti voluta dall'allora presidente Atifete Jahjaga, secondo la quale il confine proposto dall'accordo già firmato “soddisfa pienamente gli standard internazionali” non sono riuscite a calmare gli animi. Dopo una fumata nera a luglio scorso, anche un nuovo tentativo di arrivare al voto il 1 settembre è naufragato, costringendo il primo ministro Isa Mustafa a rinviare la ratifica a data da destinarsi. Stavolta, a far mancare i numeri per un voto positivo (sulla questione è necessaria una maggioranza qualificata dei due terzi) è stata però la lista dei serbi del Kosovo che, secondo voci di corridoio, avrebbe vincolato il proprio appoggio a concessioni sulla partita dell'Associazione delle municipalità serbe.
Se confini e “sacralità” del territorio sono temi estremamente sentiti in Kosovo, paese appena emerso da un conflitto nazionale con la Serbia, le radici dello scontro sembrano però affondare nel difficile funzionamento della giovane democrazia kosovara. Il sistema politico di Pristina non si è ancora ancora ripreso dalle conseguenze nefaste delle ultime elezioni politiche, tenute nel 2014. Dopo il conteggio dei voti, i partiti di opposizione (Vetëvendosje, Lega democratica del Kosovo - LDK, Alleanza per il futuro del Kosovo e NISMA) avrebbero avuto i numeri per creare un governo e scalzare l'ex primo ministro – e ora presidente – Hashim Thaçi, leader storico prima dell'Esercito di liberazione del Kosovo (UCK) e poi del Partito democratico (PDK).
Le resistenze di Thaçi, insieme a discusse sentenze della Corte Costituzionale, hanno però prima portato ad un lungo stallo, e poi alla nascita di un'alleanza “innaturale” tra PDK ed LDK (benvista però dai circoli internazionali, che hanno apertamente appoggiato l'operazione) che ha spaccato l'opposizione, lasciando ferite profonde e ancora non rimarginate. Convinta di giocare una partita falsata in partenza, l'opposizione ha quindi puntato sul boicottaggio violento delle istituzioni - soprattutto sui temi caldi della demarcazione del confine e delle municipalità serbe - per attaccare frontalmente un esecutivo accusato di corruzione e nepotismo.
L’impasse sul confine e i visti UE per i kosovari
Prigioniera dello scontro interno, la diatriba sul confine rischia però di avere strascichi pesanti non solo sulle fragili istituzioni di Pristina, ma anche sulle delicate relazioni regionali e globali del Kosovo. Un forte ritardo, condito da provocazioni e proteste sulla frontiera, già messe in atto nei mesi scorsi, potrebbe mettere a repentaglio le relazioni col Montenegro, che fino ad oggi ha avuto un atteggiamento benevolo ed amichevole nei confronti di Pristina.
Il rischio più forte, però, è nel possibile deterioramento del fondamentale rapporto con Stati Uniti ed Unione europea. Durante la sua recente visita a Pristina il vice presidente Usa Joe Biden ha espressamente chiesto al Kosovo di “rispettare i propri obblighi internazionali” con riferimento anche alla questione del confine col Montenegro. L'UE ha preso posizione in modo ancora più netto. Una delle due principali condizioni (l'altra è la lotta a corruzione e criminalità organizzata) che Bruxelles ha posto a Pristina per eliminare l'obbligo di visto ai cittadini kosovari che vogliono recarsi nei paesi UE è proprio la soluzione dell'impasse sul confine. Finché la questione non sarà risolta, il Kosovo, unico paese ancora escluso dei Balcani, resterà ancora sulla “lista nera” di Schengen.
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