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Come è andato formandosi il sistema educativo universitario in Kosovo? Una breve analisi. Riceviamo e volentieri pubblichiamo

21/08/2018 -  Nicasia Picciano

La ricostruzione post-conflitto è un processo politico e relazionale tra le autorità locali e gli attori esterni. Essa genera un’interdipendenza transnazionale. Vengono così create le basi per una pace instabile. Gli attori esterni non generano una richiesta di cambiamento agendo unilateralmente, ma de facto aiutano e sostengono alleanze politiche e/o organizzazioni locali.

Il Kosovo rappresenta un caso emblematico al riguardo. Dopo la repressione subita dalla maggioranza albanese sotto il regime di Milošević, e la fine del conflitto nel giugno 1999 (Risoluzione delle Nazioni Unite 1244, 10 giugno 1999), la comunità internazionale ha nei fatti agevolato la creazione e la formazione di uno stato a maggioranza albanese (Piano Ahtisaari 26 marzo 2007). Diversi settori sono stati al centro di analisi e dibattiti, ma quasi inesistente è l’attenzione sul ruolo che gli attori esterni hanno giocato nella definizione, progettazione e implementazione del sistema universitario privato nel giovane paese balcanico.

Tuttavia, uno sguardo a questo settore è necessario. L’educazione resta, nei fatti, un’area contestata in condizioni post-conflitto e in società etnicamente divise. È uno strumento cruciale per stimolare e legittimare l’organizzazione collettiva e spesso inculcare convinzioni su identità e obiettivi politici da raggiungere. Da ultimo, essa assume che ci sia una comunità vergine (norme, valori, tradizioni, ecc.) da preservare e garantire.

Dopo settantotto giorni di bombardamento NATO, il Kosovo è posto sotto amministrazione internazionale ad interim (risoluzione 1244). Quest’ultima ha, tra gli altri, il compito, di ricostruire il sistema educativo kosovaro. Il Dipartimento per l’Educazione e la Scienza (DES), oggi Ministero per l’Educazione la Scienza e la Tecnologia (MEST), è in carica, insieme ad altre agenzie internazionali (UNESCO, UNICEF, ecc.), di siffatto impegno.

La principale emergenza era di riconsentire ai bambini e ai giovani studenti (scuola primaria e secondaria) di ritornare a scuola. Al contrario, il sistema universitario è stato completamente ignorato. Non solo non si è sviluppata una strategia a lungo-termine del settore, ma non si sono dettate delle linee guida sull’istituzione e la gestione di istituti universitari privati.

Questa negligenza ha visto il boom di siffatte strutture tra il 2002 e il 2005. Pristina ospita ufficialmente venticinque collegi privati (ufficiosamente il numero è più elevato e non esistono statistiche attendibili al riguardo). Il numero è ancora maggiore se si considera il paese nel suo insieme (ventinove in tutto). In proporzione, il Kosovo, quattro volte più piccolo della Svizzera, ha il più alto numero di strutture universitarie private rispetto a tutti gli altri paesi della regione e questo fa sorgere dubbi e lascia aperta la riflessione.

Ad oggi non esiste alcun controllo sul tipo di educazione prodotta nei collegi privati. Sarebbe, invece, auspicabile poter monitorare il livello della qualità d’istruzione impartita, la qualifica del personale didattico, il livello d’integrazione delle altre minoranze e delle persone disabili.

Non solo non c’è controllo alcuno sulla qualità e la qualifica del personale. Molti programmi sono accreditati in maniera dubbiosa e non sono pochi i casi di corruzione (accreditamento dietro pagamento). La qualifica del personale accademico nei collegi privati solleva incertezze e dubbi. Non è insolito trovare professori che in realtà tali non sono e che hanno in precedenza lavorato in altri settori (cinema, banca, ecc.) e/o chi ha conseguito un dottorato de facto comprato in Albania.

Il maggiore problema resta quello dell’integrazione delle minoranze (serbi, gorani, roma, ashkali, egiziani). Questi collegi sono gestiti dalla maggioranza albanese e la lingua d’istruzione è l’albanese. Quest’ultimo aspetto disincentiva la partecipazione di minoranze che padroneggiano poco la lingua. Un suggerimento sarebbe d’inserire l’istruzione anche in lingua inglese per programmi di laurea e/o master universitari. Da ultimo, bisogna evidenziare la mancanza di formazione da parte del personale didattico, e di strutture ad hoc per garantire la partecipazione di persone portatrici di handicap.

In un Kosovo a quasi venti anni dalla fine del conflitto e dieci anni dalla sua indipendenza, la strada da percorre per garantire un’istruzione universitaria di qualità, inclusiva e in linea con gli standard europei, è ancora lunga.

 

 

* Nicasia Picciano ha conseguito un dottorato sulla gestione della pace e la costruzione dello Stato in Kosovo, presso l’Università di Flensburg, Germania. I suoi interessi sono la costruzione della pace nei Balcani occidentali, il processo d’integrazione delle minoranze etniche, l’allargamento e l’integrazione all’Unione Europea. Attualmente è ricercatrice presso la Kosovo Foundation for Open Society (KFOS). L’articolo in questione è parte del progetto (Building Knowledge About Kosovo 2.0).


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