Domani il movimento Vetvendosje ritornerà in piazza, dopo giornate di tensione segnate da attentati dinamitardi che hanno avuto come obiettivo la presenza internazionale in Kosovo. Un'intervista a Naim Rashiti, analista del think tank ICG a Pristina
E' iniziato a Vienna l'ultimo round di negoziati sullo status finale del Kosovo. Pensi che possa portare a qualche novità sulla bozza finale del pacchetto Ahtisaari che verrà presentata a New York al Consiglio di Sicurezza dell'Onu?
In linea di principio direi di no, anche se Ahtisaari ha ribadito che rimane aperto ad accogliere eventuali nuove proposte, se costruttive. Queste proposte, comunque, non verranno certo da Belgrado, che rimane su posizioni esclusivamente ostruzionistiche. L'unico cambiamento sostanziale che potrebbe apportare Ahtisaari alla sua proposta è una definizione più chiara dello status finale del Kosovo, la sua separazione dalla Serbia e la creazione delle basi per una sua futura indipendenza. Se la bozza del pacchetto non subirà grandi cambiamenti, questo non significa però che in Consiglio di Sicurezza alcuni dei membri possano richiedere modifiche più o meno consistenti.
La Russia in particolare continua ad avere un atteggiamento molto scettico riguardo alla proposta di Ahtisaari. Pensi che gli altri membri riusciranno a convincerla ad assumere una posizione più morbida? E come?
E' davvero difficile da dire. Noi crediamo che la Russia stia fondamentalmente sfruttando la questione del Kosovo per avere delle contropartite sullo scacchiere internazionale, ma se vuole davvero ottenere qualcosa non può assumere una posizione troppo rigida.
Col piano di Ahtisaari l'Unione Europea riceve un ruolo da protagonista in Kosovo. L'Ue si sta muovendo verso una posizione unitaria sul futuro della regione?
Al momento non abbiamo ascoltato parole chiare da parte dell'Ue a supporto della missione di Ahtisaari e al contenuto delle proposte contenute nel suo pacchetto. E' importante che queste parole vengano dette, affinché la nuova missione dell'Unione, che rimpiazzerà di fatto quella Unmik, possa essere dispiegata senza ulteriori complicazioni. Qualcosa si sta muovendo, seppur lentamente, soprattutto grazie all'azione della Germania, che nel suo ruolo di attuale presidente dell'Ue sta facendo grossi sforzi per trovare una posizione comune. Spero che si riusciranno ad ottenere risultati visibili entro la scadenza della presidenza tedesca, perché altrimenti tutto rischia di rallentare ulteriormente.
Passiamo alla situazione sul campo. Dopo la manifestazione di Vetevendosje del 10 febbraio scorso, sfociata in scontri violenti, ci sono stati alcuni attentati dinamitardi nei confronti di veicoli Unmik e Osce. Una nuova manifestazione è stata annunciata per domani, e al personale internazionale, con un tempismo poco casuale, è stato concesso un inaspettato week-end lungo di ferie, probabilmente per evitare possibili incidenti. Ma il rapporto tra la popolazione albanese kosovara e l'amministrazione internazionale è perduto?
Questo rapporto è stato molto delicato per la maggior parte del tempo. Il fatto che Vetevendosje protesti contro l'Unmik non significa, però, che questa sia la posizione della maggior parte degli albanesi del Kosovo. Credo invece che sia vero il contrario, e che l'Unmik e la comunità internazionale siano ancora generalmente visti come fattori positivi verso il raggiungimento delle proprie aspirazioni. Il futuro sviluppo di questo rapporto dipende in prima battuta dal comportamento dello spettro politico albanese kosovaro. Se continueranno a comunicare positivamente con la popolazione e a rimanere uniti intorno al pacchetto Ahtisaari la situazione dovrebbe rimanere stabile. Un altro fattore importante, naturalmente, sarà la posizione assunta dalla stessa comunità internazionale. Se ci dovessero essere ulteriori ritardi sulla definizione dello status, la situazione può peggiorare rapidamente.
Ma le nuove manifestazioni possono portare ad ulteriori atti di violenza?
E' sicuramente possibile. Per evitarlo, anche in questo caso, sarà fondamentale la capacità dei politici albanesi kosovari di lanciare i messaggi giusti, ma anche la gestione dell'ordine pubblico da parte delle forze di polizia, locali ed internazionali, che il 10 febbraio è stata disastrosa.
Ma quali sono stati gli errori fatti in quell'occasione?
Errori sono stati fatti a più livelli. Ha fallito la catena di comando, non ha funzionato la comunicazione tra le forze di polizia locali e quelle dell'Unmik, gli ordini sono stati interpretati in modo arbitrario dalle forze speciali di alcuni paesi, soprattutto Romania, Ucraina e Polonia. Un ulteriore fallimento è stato determinato dalla mancata capacità da parte delle forze Unmik di dare risposte chiare sui motivi del loro comportamento. Le indagini, che sono ancora in corso, dovrebbero davvero andare in profondità e spiegare che cosa è andato storto, e perché.
In questa occasione il capo delle forze di polizia internazionali, Stephen Curtis, è stato costretto a rassegnare le dimissioni, differentemente a quanto accaduto, per esempio, dopo i fatti del marzo 2004, quando l'amministrazione internazionale fece fronte compatto nel difendere l'operato dei propri ufficiali. A cosa è dovuta questa differente presa di posizione?
Effettivamente ci sono molte analogie con quanto accaduto nel 2004. In questo caso, però, le autorità dell'Unmik hanno agito con più attenzione, e io credo che questo dimostri che oggi queste abbiano maggiore responsabilità politica rispetto a quanta ne avessero allora. Sicuramente nella decisione pesa anche la delicatezza del momento, e l'Unmik, che tra l'altro si appresta a fare le valigie, non può permettersi errori del genere proprio adesso.
Varie organizzazioni, tra cui Amnesty International, hanno chiesto che i poliziotti e gli ufficiali coinvolti nelle violenze del 10 febbraio, che hanno portato alla morte di due manifestanti, vengano privati dell'immunità. Credi che sia possibile?
I precedenti sicuramente non sono molto incoraggianti, visto che fino ad oggi molti poliziotti accusati di aver agito arbitrariamente in Kosovo sono stati semplicemente rimpatriati e rassegnati alle proprie mansioni senza alcuna conseguenza. Questa volta, però, sembrano esserci forti segnali che l'Unmik voglia trattenere il personale di polizia coinvolto in Kosovo fino alla fine delle indagini. Io spero che sia possibile arrivare all'incriminazione almeno di quelli che hanno sparato in modo incontrollato e irresponsabile. Una grande responsabilità cade naturalmente anche sugli stati che hanno inviato queste forze, e secondo me organizzazioni come Amnesty International dovrebbero fare pressione affinché questi stati collaborino pienamente alle indagini in corso.
Nei giorni scorsi Ramush Haradinaj è partito nuovamente per l'Aja. Questo aggiungerà nervosismo ad una situazione già tesa?
Sì, questo è un momento molto delicato, e la sua partenza potrebbe generare nuove tensioni. In generale, però, direi la gestione del caso Haradinaj ha portato un'influenza positiva sulla situazione in Kosovo, visto che lo stesso Haradinaj è riuscito a mandare sempre chiari segnali distensivi alla popolazione. Ciò non toglie, naturalmente, che ci siano individui o gruppi organizzati che leggano la situazione in termini di radicalizzazione dello scontro.
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