Torna alta la tensione in Kosovo, dove nei comuni a maggioranza serba del nord si è arrivati ieri a scontri tra cittadini di nazionalità serba e le forze KFOR. Il bilancio è di una trentina di militari internazionali feriti, di cui 11 italiani, e una cinquantina di feriti tra i dimostranti. Un commento
È salita di nuovo la tensione in Kosovo, ad un livello che non era stato raggiunto da anni, ed è sfociata ieri in scontri violenti tra manifestanti serbi e forze della KFOR a Zvečan, una delle municipalità del nord a maggioranza serba. Risultato, almeno trenta militari KFOR feriti, di cui 11 italiani (tre in modo serio) insieme ad alcune decine di dimostranti. Da tempo il livello di scontro non aveva toccato una soglia così alta, è i motivi di preoccupazione oggi non mancano.
Vari fattori, in moto da lungo tempo, hanno portato alla scintilla che ieri ha rischiato di destabilizzare di nuovo la regione. Da una parte l’indipendenza irrisolta del Kosovo, questione che non si riesce a superare, nonostante i rinnovati sforzi della diplomazia europea, che in primavera hanno portato ad un accordo verbale tra il presidente serbo Aleksandar Vučić e il premier kosovaro Albin Kurti, che però finora non è stato trasformato in un’intesa solida per “normalizzare le relazioni” tra Belgrado e Pristina.
Dall’altro, il controllo del territorio nel Kosovo del nord, abitato compattamente da serbi, e finora ribelle ad integrarsi pienamente nella struttura statale del Kosovo indipendente. Le ultime elezioni amministrative, con il boicottaggio di massa dei serbi, hanno portato all’elezione di sindaci eletti con una percentuale minima degli aventi diritto (3,47%). Ora il governo di Pristina ha deciso di imporre comunque l’entrata in carica di questi sindaci (una mossa fortemente criticata tra gli alleati storici di Pristina, Stati Uniti in primis), mossa che ha scatenato la reazione di parte della popolazione serba, col probabile intervento di “elementi” provenienti dalla Serbia.
C’è poi la difficoltà politica affrontata al momento dallo stesso Vučić, contestato da manifestazioni di massa a Belgrado e in altre città serbe dopo le gravi stragi che hanno segnato la Serbia all’inizio di maggio. Una situazione che rende comodo, dal punto di vista politico, indirizzare l’attenzione dell’opinione pubblica serba sul riaccendersi della questione kosovara.
Il tutto, condito dal rumore di fondo della guerra in Ucraina, che si riflette sulle faglie di tensione mai risolte nei Balcani, di cui il Kosovo, ma anche la Bosnia Erzegovina, rappresentano le spaccature più dolorose e potenzialmente gravide di rischi.
Se il piano strategico a Bruxelles e Washington era quello di sfruttare la “finestra di opportunità” creata dall’invasione russa dell’Ucraina per dare un’accelerata alla soluzione del rebus kosovaro, privando la Russia di Putin di una delle principali carte a disposizione del Cremlino per rinfocolare tensioni nella regione, distraendo così energie dal fronte orientale, il gioco rischia però oggi di sfuggire di mano.
Perché altri attori sembrano voler cogliere la stessa “finestra di opportunità”, ma con fini diversi. Dopo l’ennesimo risultato ambiguo della mediazione europea, Kurti sembra deciso a forzare la mano per finire quello che – dal punto di vista di Pristina – è il recupero delle “terre irredente” del nord. A Vučić, messo in difficoltà sul piano interno dalle proteste, e su quello internazionale dal restringersi dello spazio “non-allineato” tra Occidente e Russia che la Serbia occupa da anni, il riaccendersi delle tensioni, come detto, potrebbe risultare utile, almeno nell’immediato.
Dell’interesse della Russia di aprire nuove fratture nei Balcani occidentali è stato scritto molto in questi ultimi anni, e soprattutto dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina: di certo oggi al Cremlino non si disperano, vedendo che il mondo euro-atlantico ha gatte da pelare nel suo cortile balcanico.
Oggi la diplomazia europea si trova, suo malgrado, a non guidare più il carro, ma ad essere tirata per la giacca dai vari attori che si muovono sul teatro kosovaro. Probabilmente sconta il prezzo del non essere riuscita ancora a concretizzare la visione e le speranze suscitate dagli accordi di Bruxelles del 2013, accordi che promettevano una rapida normalizzazione della situazione, condita con un futuro di stabilità ed integrazione per entrambi i contendenti.
Lo scontro con le forze KFOR, riconosciute di fatto come elemento centrale per la sicurezza di tutte le comunità che vivono in Kosovo, è un elemento da non sottovalutare, e parla di un salto di qualità – in negativo – nel livello di scontro. Come già successo in passato, la tensione potrebbe anche rientrare, come già successo ripetutamente in passato. Le speranze non vanno però lasciate al caso o alla stanchezza dei contendenti.
“Entrambe le parti debbono prendersi piena responsabilità per quanto successo e fermare ogni ulteriore escalation, invece di nascondersi dietro false narrative”, ha dichiarato oggi il generale Angelo Ristuccia, comandante delle forze KFOR. Un appello che può e deve essere allargato anche agli attori internazionali, Unione europea compresa: gli eventi di ieri devono ricordare che la ricerca di stabilità, senza prospettive, rischia di generare effetti contrari a quelli desiderati.
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