Continua la resistenza dei serbi del Kosovo contro il tentativo di introdurre una frontiera con la Serbia centrale. Dopo l'incendio del posto di Jarinje, le truppe KFOR hanno riaperto solo parzialmente il transito alle persone, mentre le merci non possono passare e il Kosovo settentrionale rischia l'emergenza umanitaria. Il resoconto da Mitrovica della nostra corrispondente
Nella notte di domenica 31 luglio, cinque giorni dopo che la KFOR aveva chiuso entrambi i valichi amministrativi nel nord del Kosovo, dopo l'incendio di Jarinje, il traffico è stato parzialmente riaperto al solo passaggio di persone. I serbi, che hanno vissuto in una situazione di blocco pressoché totale dal 27 luglio, hanno accolto con sollievo la decisione, e così anche i loro rappresentanti ufficiali che l'hanno interpretata come “un gesto di buona volontà e di disponibilità ad un accordo.”
Rischio di una catastrofe umanitaria?
Nelle ore precedenti si era tenuta una conferenza stampa d'emergenza presso l'ospedale di Kosovska Mitrovica, per informare il pubblico del fatto che c'erano carenze di medicinali, ossigeno, sangue e materiali di consumo, e che il trasporto di pazienti particolarmente gravi verso gli ospedali della Serbia centrale non sarebbe stato possibile. Diverse fonti mettevano poi in allerta rispetto al rischio di un disastro umanitario, dopo che il nord era stato tagliato fuori per diversi giorni dalla Serbia centrale. I media serbi avevano informato della carenza di latte, pane e altri alimenti, e del problema dei rifornimenti di acqua, non solo nel nord ma anche nelle enclave serbe [del Kosovo] che ricevono le loro scorte dalla Serbia. La popolazione locale, tuttavia, non ha avvertito in modo serio la mancanza di alimenti o medicinali almeno fino a ieri, soprattutto grazie alle scorte che sono state consumate in questi giorni. Secondo le notizie più recenti, è stato permesso il transito a due convogli di aiuti della Croce Rossa della Serbia.
Shuttle diplomacy
La notte di domenica le truppe della KFOR hanno dunque permesso la parziale riapertura dei valichi, ma hanno impedito il passaggio al negoziatore serbo Borko Stefanović e al ministro per il Kosovo e Metohija Goran Bogdanović. I due sono infine riusciti ad entrare attraverso un percorso di fortuna, utilizzato in questi giorni dai serbi del nord per raggiungere la Serbia centrale. Stefanović, insieme a Bogdanović, è in Kosovo dalle prime ore del mattino del 26, subito dopo l'arrivo delle truppe speciali kosovare (ROSU) nel nord. Il negoziatore è costantemente impegnato in una sorta di “shuttle diplomacy” tra la KFOR e i serbi locali, e in mediazioni continue con i rappresentanti internazionali, in particolare con il comandante della KFOR, Bühler, i sindaci locali e le persone che si sono radunate alle barricate.
Stefanović e Bogdanović si sono incontrati ieri mattina con il Comitato di Crisi, che opera in situazioni di emergenza in 4 municipalità del nord, e sono poi tornati indietro, attraverso la stessa strada di fortuna, per arrivare alla prima cittadina serba dall'altro lato del confine amministrativo, Raška, e incontrarsi lì con Robert Cooper, inviato dell'Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza dell'Unione Europea, Catherine Ashton. Cooper era arrivato per negoziati d'emergenza, facendo la spola tra Pristina e Belgrado. Ci si aspetta che il suo intervento possa contribuire a calmare le tensioni riportando tutti al tavolo negoziale, malgrado sia stato proprio lui a far interrompere i colloqui, ora spostati al prossimo settembre, tra serbi e albanesi a Bruxelles, dopo che la Serbia aveva rifiutato di riconoscere i timbri doganali della Repubblica del Kosovo. Pristina aveva poi deciso di imporre un embargo ai prodotti serbi, e il 25 luglio aveva cercato di fare la stessa cosa nel Kosovo settentrionale.
Attraverso i reticolati
Il ministro degli Interni del Kosovo, Bajram Rexhepi, ha minacciato di arrestare Stefanović e Bogdanović. Il comandante della KFOR, inoltre, ha dichiarato che non incontrerà Stefanović a causa del suo ingresso illegale, e anche EULEX ha condannato l'arrivo di Stefanović. Il Consiglio di Sicurezza del Kosovo, presieduto da Thaci, ha richiamato nella giornata di ieri al “massimo livello di allerta e all'intervento con ogni mezzo necessario nel caso della violazione della sovranità statale e dell'ordine costituzionale interno del Kosovo.” Voci non confermate hanno parlato ad Osservatorio della possibilità di un raggruppamento, cioè del possibile utilizzo di unità EULEX per smantellare le barricate mentre la KFOR protegge “il confine”.
Ieri mattina la KFOR ha rimosso la barricata più lontana eretta dai serbi nella municipalità di Zubin Potok, fatta di sabbia e detriti, per aprire un nuovo collegamento con le proprie unità a Brnjak. I serbi si sono radunati di fronte alla barricata principale eretta di fronte a Zubin Potok, per creare uno scudo umano nel caso che le truppe della KFOR decidessero di avanzare ulteriormente.
La KFOR sta intimando ai cittadini di Zubin Potok di abbandonare i blocchi e di resistere di fronte agli elementi “radicali e criminali”. Un comunicato delle truppe internazionali dichiara che “questi inutili blocchi stradali stanno isolando i cittadini onesti. A causa delle azioni delle autorità locali, elementi radicali impediscono che le forniture di cibo e medicinali possano essere consegnate alla città”.
Resistenza
La popolazione del nord, però, respinge unanimemente le accuse dei rappresentanti internazionali a Pristina, in particolare della KFOR, secondo cui il nord del Kosovo sarebbe “controllato e ricattato da un gruppo di estremisti”.
“E' semplicemente falso”, mi dice Ana (24), di Kosovska Mitrovica. “Io e i miei amici siamo rimasti sconvolti quando abbiamo visto il posto di Jarinje che veniva dato alle fiamme, immagino dai tifosi delle squadre di calcio locali. Però siamo tutti contrari al passaggio qui della KFOR, a queste condizioni, dato che stanno lavorando per separare il nord del Kosovo dalla Serbia”. La ragazza aggiunge poi che “ci sdraieremo sulla strada, e saranno loro ad essere responsabili per le vittime civili.”
“Allora siamo tutti estremisti, e criminali, non solo un gruppetto di noi, se crediamo alle menzogne della comunità internazionale a Pristina”, commenta un amico di Ana, Nebojša, sulla terrazza di un bar. “Questa è resistenza popolare. Stiamo difendendo quello che è nostro, non vogliamo un confine del Kosovo. La pensiamo tutti così. Se questo significa che siamo estremisti e criminali, allora che il mondo intero ci chiami così”, sostiene il giovane.
Vita sulle barricate
“Resistenza nello spirito di Gandhi” è lo slogan che si sente più spesso sulle barricate. I serbi hanno deciso di restare sul rovente asfalto estivo, come scudi umani, per impedire un'improvvisa sortita della KFOR.
Le barricate sono tenute con dei turni, organizzati dalle diverse ditte o istituzioni cui appartengono i manifestanti. La maggior parte di quelli che erano in vacanza sono rientrati dopo essere stati richiamati dal Comitato di Crisi, attraverso il percorso alternativa che passa attraverso le montagne, così che ci sono più persone in strada ora di quante non ce ne fossero sette giorni fa, quando è tutto cominciato.
Quando non c'è la KFOR, la gente cerca sollievo dal caldo rovente dell'asfalto rifugiandosi all'ombra di improvvisate terrazze estive, o nei cortili delle case. Alla sera viene fatto divieto di distribuire alcool, e i cittadini si autocontrollano per impedire discorsi virulenti e possibili azioni. In mezzo alla strada ci sono ombrelloni da spiaggia e mattoni su cui sedersi.
Quando l'allarme segnala l'arrivo delle truppe NATO, la gente si raduna rapidamente in gran numero e si siede sull'asfalto. Cartelli con scritto “No pasaran” e “Cancello 1244”, insieme a immagini di Putin, sono affissi ai camion che bloccano la strada, per cercare di dimostrare una volta di più l'atteggiamento di ribellione dei serbi nei confronti delle azioni di Pristina.
Sulle barricate si è svolta anche una festa di matrimonio. La sposa è arrivata attraverso la strada di montagna dalla vicina città serba di Raška, dall'altra parte della linea. Un famoso gruppo rock locale sta organizzando un concerto per l'“estate sulle barricate”, mentre un gruppo teatrale sta facendo performance all'aperto. Una donna ha portato una rosa ad un soldato della KFOR. Ai soldati internazionali è anche stata offerta dell'acqua. A Leposavić sono stati consegnati dei panini alle truppe americane di fronte al checkpoint, come protesta simbolica per il fatto che da giorni il fornaio locale, che si trova dall'altra parte del confine amministrativo, non può consegnare il pane. Di fronte ai soldati, di guardia dietro ai sacchetti di sabbia e al filo spinato, si svolge una partita di calcio con gli arbitri bendati che indossano magliette con scritto “KFOR” e “EULEX”, mentre i giocatori hanno bande gialle, per simboleggiare il fatto che sono imprigionati.
“Questa è l'Auschwitz del ventunesimo secolo”, mi dice Vesna S. (45), impiegata del comune di Kosovska Mitrovica sulle barricate con i suoi colleghi. “Lasciateci in pace. Noi sappiamo cosa vogliamo e cosa non vogliamo. Non vogliamo la dogana e non vogliamo un confine del Kosovo. Ne abbiamo abbastanza della violenza”, continua Vesna. Quando le chiedo come si sente in tutto questo, mi risponde: “Come in Somalia. Una terra abbandonata in cui siamo imprigionati, senza cibo. I miei diritti umani sono calpestati.”
Alexander M. (35), di Zvečan, è più riservato nell'esprimere i suoi sentimenti personali e i problemi: “Oggi dovevamo andare al mare, e non ci siamo andati anche se avevamo già pagato per la nostra sistemazione. I miei bambini sono piccoli, e si sono messi a piangere quando hanno saputo che non andavamo. Purtroppo è così. Adesso sto pensando a come tenere i miei bambini al sicuro. Io e mia moglie cerchiamo di non mostrare i nostri veri sentimenti di fronte a loro. Sono giorni che sentono il rumore degli elicotteri sopra di noi.”
Su uno schermo improvvisato, alle barricate, la gente ha guardato la partita del campionato mondiale di pallanuoto tra Serbia e Italia. Tutti tifavano con passione per i giocatori serbi, mentre le televisioni davano notizia della sessione speciale del parlamento di Belgrado sul Kosovo.
“So già cosa diranno i deputati – mi ha detto Nena M., di Kosovska Mitrovica. Quello che non so è se la Serbia prenderà la medaglia d'oro.”
La risoluzione del parlamento serbo
La sessione del parlamento, però, è stata seguita con attenzione nel nord del Kosovo. I serbi sono rimasti delusi dal dibattito, ma hanno espresso il proprio sostegno per la risoluzione che è stata adottata, che ribadisce l'impegno della Serbia nei confronti del dialogo e di una soluzione pacifica della crisi, chiedendo che il governo protegga la proprietà e le vite dei cittadini nel nord, anche se si aspettavano contenuti più concreti. Discussioni virtuali hanno animato i profili Facebook di quelli che abitano nel nord.
“Cari deputati nazionali, dopo aver ascoltato le vostre c..te ho voglia di trasferirmi in Nuova Zelanda, per allevare pecore in un pascolo grande quanto la Serbia, senza televisione né internet, per concedermi una tregua dalla vostra disonestà e ipocrisia. Sono sicuro che ascoltare il belato delle pecore, al posto dei vostri discorsi, mi renderà una persona migliore”, dice uno delle centinaia di commenti simili.
La polveriera
Nel nord, gli avvenimenti si stanno accavallando. I serbi respingono ogni ipotesi volta a rendere effettiva la sovranità e i confini del Kosovo nel nord. Al tempo stesso, i rappresentanti internazionali stanno fortemente sostenendo le azioni del governo del Kosovo, con accuse al nord di essere controllato unicamente da un gruppo di criminali e di estremisti. Il messaggio che arriva dalla Serbia è che non entrerà in guerra, ma che utilizzerà ogni mezzo possibile per proteggere la vita e le proprietà dei propri cittadini.
Il filo degli eventi si sta svolgendo. La posta in gioco è alta: vite umane e territorio. La situazione rischia una escalation drammatica.
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