Con la questione del Kosovo, si ripropone la vischiosità della tradizione stato-nazionale nel nostro continente. Ma le cose non finiscono qui e tutti, Kosovo incluso, dovremo presto fare fronte alle sfide del nostro tempo per non restarne schiacciati. Il commento di Osservatorio sui Balcani
Il Kosovo dichiara l'indipendenza ma le cose non finiscono qui. Dal punto di vista kosovaro albanese il Kosovo ha una lunga strada davanti sé. Una volta venuta meno la "scusante" per tutti i mali, cioè il raggiungimento della sovranità statale, le questioni economiche e sociali verranno di certo a galla. La difficile situazione economica, la disoccupazione alle stelle, i traffici illeciti e la corruzione saranno i temi con cui il nuovo stato dovrà fare i conti. Ricordiamoci che alle scorse elezioni solo il 45% della popolazione andò a votare, mostrando la crescente disaffezione verso la politica.
Il Kosovo resterà per parecchio tempo dipendente da finanziamenti internazionali. Per giugno è prevista una conferenza di donatori per il Kosovo. Inoltre, la missione UE che sta prendendo corpo per sostituire l'amministrazione delle Nazioni Unite, secondo il piano Ahtisaari, godrà dei cosiddetti poteri di Bonn e anche se, come annunciato da fonti diplomatiche europee, saranno meni intrusivi di quelli in Bosnia Erzegovina daranno comunque la possibilità di intervenire direttamente sulla politica interna del paese. Si passa quindi da un protettorato delle Nazioni Unite ad un protettorato dell'Unione europea. Indipendenza sì, ma sovranità limitata.
Con ciò non si vuole sminuire le ragioni dell'entusiasmo dei kosovari nel festeggiare l'indipendenza, si tratta semplicemente di sottolineare un dato di realtà, ben noto agli stessi leader kosovari.
Ma c'è un'altra questione che pare prendere forma, in un modo forse non molto eclatante, anche se gli incidenti dei giorni scorsi sembrano proprio indicare questa direzione. Cioè il fatto che il Kosovo si stia in qualche modo a sua volta dividendo. Il Kosovo a nord dell'Ibar, in particolare Kosovska Mitrovica e i suoi leader politici hanno dimostrato, anche violentemente, di non voler accettare la secessione del Kosovo dalla Serbia. Quello che sta accadendo, e che per ora nessuno vuole dire, è che il Kosovo del nord si staccherà dal resto del paese. Non lo può dire Belgrado, perché violerebbe essa stessa la risoluzione 1244 a cui continuamente ha fatto appello. Non lo può dire Pristina, perché ha sempre dichiarato che il Kosovo rimarrà un "paese per tutti" e che la situazione è sotto controllo. Non lo può dire la comunità internazionale, in primis l'UE, perché equivarrebbe ad ammettere il fallimento dell'intervento a favore di un Kosovo multietnico.
Tuttavia quello che sta accadendo sul campo e che vari analisti stanno rilevando è la tacita divisione del territorio. La Serbia non ne sarebbe scontenta dato che da tempo sono noti i progetti di divisione del Kosovo avanzati dai politici e intellettuali serbi.
Resta però la questione delle enclave serbe nel resto del Kosovo. Cosa faranno? I serbi saranno costretti ad abbandonarle? Difficile dire se ci sarà un nuovo esodo della minoranza serba, in fondo la condizione di profugo può essere peggiore ed è poco probabile che la maggioranza kosovaro-albanese abbia oggi interesse a compiere atti di ostilità contro le minoranze.
Ma va notato come, a partire dal 1999, la responsabilità dell'elaborazione del conflitto, e quindi della riconciliazione, tra le due comunità sia stata quasi esclusivamente affidata alle organizzazioni non governative locali ed internazionali invece che avviare un percorso istituzionale che coinvolgesse le élite locali rispetto ai temi dei diritti e della convivenza.
In tutto questo l'Unione europea ha una grande responsabilità e non solo perché si appresta a prendere in mano il controllo del paese ma anche e soprattutto perché il Kosovo oggi è diventata una questione tutta europea.
Fino ad oggi la comunità internazionale anziché sondare strade nuove ha lasciato che le parti coltivassero le proprie alleanze e che le lunghe trattative si concludessero con un nulla di fatto. La diplomazia internazionale - con il Piano Ahtisaari - non ha fatto che accettare l'esistente. La società civile europea invece è rimasta schiacciata dal bisogno di schierarsi ideologicamente con uno dei due gruppi etnici in conflitto.
L'Europa ancora una volta divisa dalle sue stesse logiche stato-nazionali - come già avvenne all'inizio degli anni '90 e poi a Rambouillet - ha perso l'ennesima occasione di affermare un approccio diverso alle relazioni internazionali. In apparenza è riconosciuto il ruolo di Bruxelles nella soluzione del nodo Kosovaro, tanto che l'"Eulex" rappresenterà la più grande missione europea di tutti i tempi. E tuttavia l'Ue si trova costretta ad un'impresa che nasce senza aver raggiunto il consenso delle parti e inizia ad operare senza il mandato delle Nazioni Unite.
Nei Balcani non c'è voglia di guerra ma in questi giorni le proteste di piazza in Serbia hanno mostrato il loro devastante potenziale. A Belgrado le ultime elezioni hanno mostrato chiaramente il largo consenso popolare di cui godono gli ultranazionalisti che hanno mancato la vittoria per poco più di centomila voti. C'è da aspettarsi che la questione del Kosovo condizioni l'agenda politica in tutta la regione.
I paesi dell'area ex-jugoslava stanno dimostrando molta cautela nel riconoscere l'indipendenza kosovara. La Croazia ha il timore di guastare i rapporti con la Serbia, la Macedonia deve fare i conti con il desiderio di un quarto dei suoi abitanti di riconoscere il Kosovo, la Repubblica Srpska in Bosnia Erzegovina non ha costituzionalmente alcun diritto di invocare un referendum separatista ma continuerà a sfruttare questa situazione destabilizzando il paese, il Montenegro non si affretta a riconoscere il neostato per motivi di buon vicinato. Nemmeno la Slovenia, presidente di turno dell'Ue, riuscirà entro questo mese a riconoscere Pristina.
Tempo fa Osservatorio sui Balcani aveva proposto di imboccare una strada diversa che mettesse al centro la prospettiva europea con cui rispondere alle istanze di entrambe le parti, la sovranità territoriale e le radici culturali dell'identità nazionale serba da un lato, il diritto all'autodeterminazione della maggioranza kosovaro-albanese dall'altro. Per uscire da una situazione di stallo serviva un salto di paradigma, cambiando prospettiva, passando dall'orizzonte degli stati-nazione ad una logica di tipo "post-nazionale". Una strada inedita quella del Kosovo come prima regione europea che poteva servire anche a rilanciare la costruzione dell'Europa politica. Ma evidentemente non siamo ancora pronti per liberarci dalla vischiosa tradizione stato-nazionale del nostro continente e rispondere alle sfide del nostro tempo.
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