Shqipe Habibi, kossovara, è stata rapita lo scorso 28 ottobre assieme a due colleghi in Afghanistan mentre vi si trovava per conto delle Nazioni Unite. Non è stata ancora rilasciata. Carolina Zincone, un'amica che ha lavorato con lei, racconta dei mesi trascorsi insieme in Kosovo.
Di Carolina Zincone
Anche Fatos era bravo, ma Shqipe era speciale. Entrambi "albanesi" di Pec/Peja, lavoravano con me come local trainers per la Joint Registration Taskforce istituita dall'ONU e dall'OSCE all'inizio del 2000, in seguito alla guerra in Kosovo, con lo scopo di "contare" i kosovari, di identificarli tra i molti andati e venuti da questa terra prima, durante e dopo il conflitto. L'operazione avrebbe dovuto garantire a tutti coloro che fossero stati riconosciuti come kosovari (indipendentemente dalla nazionalità d'origine) il diritto di voto alle elezioni fissate per l'autunno dello stesso anno e documenti validi per l'espatrio. Gli albanesi avevano tutto l'interesse a vedersi attribuire un pezzo di carta diverso dal passaporto jugoslavo, tanto più che in molti casi questo stesso passaporto era stato dato alle fiamme durante le rappresaglie serbe seguite all'attacco delle forze internazionali. Meno d'accordo ad essere "registrati" come kosovari erano i serbi, che i passaporti li avevano con sé, ma senza scorta KFOR non potevano mettere il naso fuori dai villaggi dove erano rimasti isolati e, in ogni caso, non avevano nessuna intenzione di partecipare alle elezioni.
Tutto questo Shqipe lo sapeva. Contrariamente a Fatos, che con il suo perfetto accento inglese impersonava allo stesso tempo orgoglio nazionale e voglia di essere riconosciuto come albanese dal mondo intero, Shqipe non provava nessun risentimento per i serbi e ne comprendeva le ragioni. Una volta era sfuggita per un pelo ad alcuni di loro, ma serbi erano anche svariati suoi parenti, amici e vicini di casa. Come avrebbe potuto rinnegarli? Per questo non si rifiutava di venire con me nelle piccole roccaforti serbe per cercare di convincere gli abitanti che la loro partecipazione nella costruzione di un nuovo Kosovo aveva comunque un senso. Quando l'avevo intervistata a Pec/Peja per proporle questo lavoro era nuova al mondo delle grandi organizzazioni internazionali. Dal colloquio emersero subito un gran bel carattere e molta apertura mentale. Ricordo infatti che Shqipe esordì con una battuta, così, per rompere il ghiaccio.
Il ghiaccio si ruppe e come. Mi raccontò della sua vena artistica, dei suoi studi, di come amava dipingere e degli abiti che doveva disegnare per una sfilata di moda (organizzata a beneficio del contingente italiano!). Da quel momento non ci separammo più per diversi mesi, trascorrendo le giornate intere insieme, dal burek che lei mangiava a colazione alla birra nell'immancabile pub. Nei centri di registrazione sorridevamo complici delle incomprensioni "culturali" che si verificavano quando spiegavamo cosa fare ai Volontari delle Nazioni Unite (UNV come me), venuti da tutto il mondo per presiedere le attività di censimento. C'erano molti uomini adulti che avevano deciso di imbarcarsi in questa avventura come volontari, appunto, pur ricoprendo nel loro Paese ruoli istituzionali di spicco. Ciò nonostante, le due ragazze che arrivavano con un gippone a dare loro qualche "lezione" non erano sempre accolte a braccia aperte. Per non parlare poi dei nostri bisticci con quello staff locale particolarmente creativo che aveva deciso di cancellare dai propri distintivi le scritte in serbo giustamente previste dagli organizzatori. Shqipe osservava, ascoltava e parlava con gli uni e con gli altri. Era affascinata e colpita dalle storie che ci venivano raccontate da chi, per esempio, era venuto in Kosovo dalla Sierra Leone, allontanandosi da un Paese massacrato per aiutarne un altro ugualmente colpito dai conflitti interni. Deve aver apprezzato che gli "aiuti umanitari" non fossero monopolio dei Paesi più ricchi e avanzati. E chissà che non le sia venuta proprio allora l'idea di partire, di lasciare un Kosovo che cominciava a starle un po' stretto per girare il mondo e andare dove ci fosse bisogno della sua esperienza.
Fatto sta che Shqipe, superando le enormi difficoltà derivanti dal fatto che i famosi documenti per cui avevamo lavorato furono riconosciuti da ben pochi Paesi, si è trovata, prima come UNV e poi come professionista, a monitorare per le Nazioni Unite sia le elezioni in Timor Est sia, adesso, quelle in Afghanistan. La sua carriera è ormai proiettata in questa direzione, quella della cooperazione internazionale e non dell'arte, ma quando può Shqipe torna a casa e riprende in mano i suoi pennelli, gli stessi con cui ha dipinto il quadro colorato e allegro che da una parete di Roma ricorda ogni giorno quel pezzo di vita trascorso in Kosovo con lei.
Vedi anche:
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Il commento sulla vicenda di Dejan Georgjievski, Oneworld SEE
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