Nuccio Iovene fa parte della Commissione diritti umani del Senato della Repubblica. Di ritorno da un viaggio in Kossovo ha inviato alcune considerazioni all'Osservatorio.
Vi ricordate del Kossovo? E' questa la prima domanda che mi viene di fare al ritorno da una missione di tre giorni della Commissione straordinaria per la promozione e la tutela dei diritti umani del Senato della Repubblica a cui ho partecipato.
A distanza di tre anni e mezzo dai 'bombardamenti umanitari' e dall'avvio del Piano ONU per il Kossovo, interrogarsi su cosa sta accadendo in quell'area può aiutarci a comprendere meglio i nuovi scenari di guerra che abbiamo all'orizzonte e le loro conseguenze nell'immediato futuro.
Una economia al collasso con interi settori produttivi bloccati e una disoccupazione al 70%; l'80% del prodotto interno lordo frutto delle attività del crimine organizzato, come ci hanno documentato le forze di polizia internazionale che abbiamo incontrato; 230.000 serbi ancora sfollati e sul cui ritorno oggi nessuno è pronto a scommettere. Una persistente difficoltà al dialogo ed all'integrazione tra i diversi gruppi etnici rappresentati oltre che dagli albanesi e dai serbi anche dalle minoranze bosniache, croate, turche, rom, askalja e gorani. E sullo sfondo il regolamento di conti all'interno delle diverse etnie che ha portato ieri a Belgrado all'uccisione del Primo Ministro Serbo Zoran Djindjic da un lato e venti omicidi, consumati negli ultimi mesi, nei confronti di albanesi moderati vicini al Presidente Rugova, portati a termine da estremisti albanesi. Tutto questo nonostante la ancora forte presenza della Comunità internazionale ed il tentativo di dare vita ad istituzioni democratiche e a favorire un 'ritorno alla normalità' che sembra essere ancora oggi assai lontana.
Anzi il Kossovo di oggi si presenta ai miei occhi come un enorme campo di sabbie mobili, dove la fatica di un passo viene rapidamente annullata dal risucchio di un terreno incerto ed infido. Il sentimento prevalente che continua a dominare è la paura. Se un serbo si ammala ed ha bisogno di un ospedale o riesce a ricoverarsi all'ospedale serbo di Mitrovica o altrimenti rinuncia al ricovero, perché ha paura di non uscirne vivo, ed ovviamente lo stesso vale, al contrario, per un albanese.
Tutti coloro i quali abbiamo incontrato nei tre giorni della missione, in diverse località del Kossovo, ci hanno confermato che l'unica vera collaborazione ed integrazione interetnica oggi è solo quella tra la mafia serba e quella albanese.
Non a caso centoventidue chiese, monasteri e luoghi di culto ortodossi sono stati fatti saltare in aria o sono stati distrutti mentre altri, tra cui alcuni tesori bizantini come il Monastero di Decani o il Patriarcato di Pec, hanno bisogno di presidi militari permanenti per evitare che anche essi vengano presi di mira.
Il puzzle del Kossovo è assai lontano dall'essere composto. La presenza di decine di migliaia di militari e civili stranieri ha sconvolto le tradizionali gerarchie sociali e retributive, dando vita ad un'economia gonfiata che rischia di produrre ulteriori contraddizioni e lacerazioni con la progressiva diminuzione della presenza internazionale.
Albanesi e serbi sono profondamente divisi sul passato e lo sono ancora di più sul futuro: gli uni puntano all'indipendenza del Kossovo mentre gli altri pensano di mantenere il Kossovo all'interno della Federazione Jugoslava, o al massimo a giungere ad una 'partizione' dell'attuale Kossovo tra le diverse etnie.
Quello che deriva da queste premesse è facile immaginare e non sembra riuscire a sbloccare la situazione la proposta in campo avanzata dal rappresentante speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite Michael Steiner, a capo della missione ONU (UNMIK), denominata 'Standard before status', basata sull'idea che è prematuro parlare dell'indipendenza del Kossovo se prima non si raggiungono gli standard istituzionali, economici e sociali necessari per una moderna democrazia.
Può permettersi l'Europa di domani, quella a venticinque, un buco nero di queste proporzioni al proprio interno?
Le uniche flebili speranze si accendono attorno alle decine di iniziative portate avanti con fatica e tenacia dalle diverse ONG, molte delle quali italiane, presenti nei posti più incredibili e sperduti. Tutte ci dicono che c'è ancora bisogno di tempo e di tanto lavoro, dal basso. E citano la fatica e la soddisfazione nella costruzione di centri di animazione delle comunità locali e di attività di microcredito, con i loro primi cinquecentotrenta casi di successo, attraverso piccoli prestiti per l'avvio di piccole attività lavorative. O il lavoro instancabile di Don Lush Gjergj, sacerdote cattolico, animatore dell'ONG kossovara intitolata a Madre Teresa di Calcutta che con gli oltre settemila volontari che con essa collaborano in tutto il Kossovo, in particolare a fianco di quei cinquantamila poveri estremi (vedove ed orfani, anziani e per la prima volta bambini di strada), sogna la costruzione di un grande tempio della pace, una vera e propria fabbrica del dialogo interetnico e interreligioso.
Con tutto questo, ed altro ancora, a distanza di tre anni e mezzo occorre fare i conti, mentre in realtà il Kossovo sembra essere scomparso dall'agenda politica della comunità internazionale per lasciare il posto ai nuovi scenari di guerra. Una ragione in più per opporsi all'illusione che la democrazia possa esportarsi con le bombe.
Nuccio Iovene
Senatore DS - Ulivo
Commissione diritti umani Senato della Repubblica
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