Viaggio in un paese dall'identità complessa e la cui esistenza viene messa in dubbio dagli Stati confinanti. Un reportage di Paolo Bergamaschi, consulente del gruppo dei verdi presso il Parlamento europeo e vicino in questi anni all'attività di Osservatorio. Lo riprendiamo dalla Gazzetta di Mantova
di Paolo Bergamaschi
Occorre una buona dose di pazienza, molta applicazione e tanta buona volontà per capire la Macedonia. Nata nel 1991 dalle ceneri della ex Jugoslavia questa repubblica ha subito più che scelto l'indipendenza cercando di resistere fino all'ultimo al passo improvviso ed imponderabile della storia. Era stato il maresciallo Tito ad inventare la Macedonia.
Ed i Macedoni con lui si sentivano sicuri. Una volta scomparso il padre fondatore sono riaffiorati i problemi di una identità imposta e ancora tutta da costruire. I paesi confinanti, poi, hanno fatto a gara nell'accentuare le frustrazioni di un popolo che per anni è esistito solo nei censimenti dello stato jugoslavo.
La Bulgaria considera la lingua macedone come un dialetto di quella bulgara, la Serbia non ha ancora definito i confini e a fatica ne riconosce la statualità, la Grecia si ostina a non accettarne il nome. A questo si aggiunge il conflitto sorto in seno alla chiesa ortodossa dopo la rottura con Belgrado. La chiesa autocefala serba, infatti, rifiuta ancora di accettare la scissione di quella macedone.
La controversia politica che divide Grecia e Macedonia sta assumendo aspetti paradossali. Considerando il nome «Macedonia» come parte integrante ed esclusiva del patrimonio storico ellenico e tenendo conto del fatto che questo è anche il nome di una provincia greca il governo di Atene ritiene che il riconoscimento internazionale della Macedonia con questa denominazione potrebbe alimentare in futuro rivendicazioni territoriali.
Il confronto agli inizi era così acceso da indurre nel 1994 la Grecia ad imporre il blocco della frontiera con questo paese. Poi dopo l'intervento delle Nazioni Unite e la revisione a Skopje della costituzione con la modifica della bandiera le parti sono tornate a parlarsi ma il contenzioso è ancora in piedi. ERJM (Ex Repubblica Jugoslava di Macedonia) è l'acronimo con cui viene provvisoriamente chiamato oggi nelle istituzioni internazionali lo stato macedone.
Sepp Kusstatscher è un euro-deputato sud-tirolese che conosce molto bene le questioni interetniche con le quali è stato costretto a confrontarsi per anni.
Giungo con lui in visita a Skopje per partecipare alla prima riunione della Commissione Mista fra Parlamento Europeo e Parlamento dell'ERJM. Le tensioni della Macedonia non si limitano ai confini esterni ma hanno origini anche interne.
Come ricorda l'accezione italiana del termine il paese è un groviglio di comunità e gruppi etnici. In base al censimento del 2002 l'etnia maggioritaria è quella slava che ammonta al 64% della popolazione seguita da quella albanese con il 25%, quella turca con il 4%, quella gitana con il 3% e via via le altre più piccole.
Gli attriti fra Slavi ed Albanesi sfociarono nel 2001 in una guerra civile durata sei mesi e conclusasi nell'agosto di quel anno con un accordo quadro firmato dalle parti a Ohrid, una delle più note località turistiche della ex Jugoslavia situata sul lago omonimo. Qui vennero gettate le basi del nuovo stato macedone ponendo fine alla di criminalizzazione della minoranza albanese. Grazie ad un 'apposita amnistia agli ex combattenti fu data la possibilità di riconvertirsi in forza politica per partecipare alle elezioni che hanno dato vita all'attuale governo di coalizione.
Dopo la ridefinizione dei confini comunali ai gruppi etnici che superano il 20% della popolazione è stato riconosciuto il diritto di utilizzare la propria lingua nelle istituzioni locali. Gli Albanesi possono farlo anche nelle istituzioni nazionali. E quote consistenti delle minoranze hanno avuto accesso alla pubblica amministrazione. Un conto però è un cessate il fuoco, un altro è una vera pace.
Le elezioni municipali della primavera in corso erano l'ultima tappa del processo di applicazione degli accordi di Ohrid ma molto, moltissimo resta ancora da fare per mettere termine a pregiudizi ed incomprensioni ancestrali.
Kusstascher tutto questo lo sa bene. Nei colloqui con la controparte tiene a sottolineare, in segno di solidarietà con i Macedoni, come per molti anni anche ai Sud-Tirolesi non fosse concessa la possibilità di chiamarsi con il proprio nome.
Oggi il Sud Tirolo, però, si è trasformato in un modello di convivenza, cosa impensabile fino a pochi anni fa, a cui i paesi con problemi interetnici guardano con attenzione. D'altronde sembra quasi un rebus e suona come una presa in giro dover chiamare gli abitanti di Skopje e dintorni come «cittadini della ex repubblica jugoslava di Macedonia» o definire l'idioma come «lingua parlata dai cittadini della ex repubblica jugoslava di Macedonia».
A Skopje ritrovo un vecchio amico. Donato Chiarini è il capo della delegazione della Commissione Europea in Macedonia. L 'Unione è presente in quasi tutti i paesi del mondo con uffici di rappresentanza equivalenti ad ambasciate anche e il loro status non è tale dato che l 'Unione Europea non ha personalità giuridica a livello internazionale. Lo otterrà con la Costituzione semmai questa entrerà un giorno in vigore.
Chiarini, comunque, come i suoi colleghi viene omaggiato e rispettato come un vero ambasciatore. Lo incontrai la prima volta a Sarajevo nel 1996 subito dopo la sigla degli accordi di Dayton che avevano posto fine al macello bosniaco. La città aveva un aspetto spettrale con le facciate degli edifici sventrati ancora miracolosamente in piedi lungo il viale dei cecchini. Lo rividi qualche anno dopo a Cipro. Anche a Nicosia aveva a che fare con una situazione di profonda lacerazione con l'isola divisa dal filo spinato tra la parte greca e quella turca.
Chiarini è un uomo navigato, la persona giusta per un'altra terra senza pace dove l'appartenenza etnica conta più della cittadinanza. A Chiarini spetta inoltre l'arduo compito di brogliare la confusione europea visto che l'Unione in Macedonia è rappresentata dalla Commissione, dal Consiglio, da un inviato speciale del Consiglio, dall'Agenzia Europea per la Ricostruzione e dalla missione di polizia «Proxima». Sono i vizi e le contraddizioni di un 'Europa vittima di complicati equilibri intergovernativi e priva dei meccanismi necessari per mettere in atto una vera ed efficace politica estera comune.
La presenza multiforme erode e non accentua i margini di credibilità europea agli occhi dei cittadini macedoni.
Skopje è una città di provincia qualunque che l'imprevedibilità della storia ha costretto ad inventarsi capitale. Il traffico non è mai caotico nemmeno nelle ore di punta e il passo misurato e regolare della gente non è certo in sincronia con quello dei nostri capoluoghi. Gli zingari che mendicano agli incroci non fanno notizia. Una passeggiata al bazar turco, l'unica parte storica della città sopravvissuta al terribile terremoto del 1963, è d'obbligo prima di sostare in un ristorante tipico ricavato in un caravanserraglio.
L'aria che si respira è decisamente migliorata rispetto agli anni precedenti quando la puzza di zolfo opprimeva la città denotando la pessima qualità del carbone utilizzato dalle centrali elettriche. Le cifre ufficiali parlano di una disoccupazione al 37% ma se il benessere si misura dal parco macchine in circolazione si ha la conferma di una economia sommersa restia a farsi fotografare avviluppata in buona parte nei tentacoli della criminalità organizzata.
Nel febbraio del 2004 la Macedonia ha formalmente presentato domanda di adesione all'Unione Europea. La Commissione ha replicato con un questionario di duemila domande al quale il governo macedone era tenuto a rispondere prima che Bruxelles prenda ogni decisione in merito. Nei giorni scorsi Skopje ha fatto pervenire le risposte contenute in 14.000 pagine che gli euroburocrati stanno meticolosamente studiando. Entro la fine dell'anno il Consiglio Europeo dovrà esprimersi prendendo tempo o confermando le ambizioni di questo piccolo stato balcanico di appena due milioni di abitanti.
In vista di questo appuntamento la febbre sta salendo a Skopje che considera l'approdo all'Unione come l 'ingresso ufficiale e definitivo nella comunità internazionale dopo anni di esami umilianti e di sedute di psicoterapia collettiva sull'esistenza o meno di una identità e di un popolo macedone.
Durante le riunioni incontro alcuni Italiani che mi invitano ad aggregarmi a loro per la partita della era fra Macedonia e Romania per la qualificazione al campionato mondiale. Siamo in cinque con quattro biglietti ma entrare non è un problema, fa parte dell'arte di arrangiarsi che ci ha reso famosi nel mondo. Lo stadio Martelli al cospetto del centrale di Skopje sembra San Siro. Il tifo sugli spalti è gioioso e civile e si eccettuano gli sputi dei gusci di semi di girasole sgranocchiati a tonnellate dalla gente che piovono sulle file di sotto in cui mi trovo. L 'urlo «Makedonia » (è il nome in slavo) rimbomba nello stadio.
Come sempre lo sport, così come la musica, è un formidabile elemento di coesione trasformandosi in un semplice ma efficace collante sociale. Una serata tra Italiani all'estero non può non concludersi in una pizzeria che non manca mai neanche nei più remoti angoli del continente.
Le autorità macedoni si lamentano spesso dell'eccessiva permeabilità dei confini con il Kosovo attraverso i quali transita ogni sorta di commercio illecito. E ' qui che mi trasferisco per una breve appendice del viaggio.
La primavera è in ritardo sulle colline che separano Skopje da Pristina. I minareti che caratterizzavano fino a pochi anni fa il paesaggio non attirano più l'occhio catturato adesso dai colori vistosi e stonati delle nuove ville costruite con le rimesse degli emigranti. Il Kosovo è un immenso cantiere ma nonostante i massicci aiuti internazionali l'economia locale è ancora ferma al palo. La terra è buona ma i pomodori arrivano dalla Turchia, i cetrioli dalla Grecia e l'aglio dalla Cina. La disoccupazione è al 60% eppure si vive in modo più che dignitoso.
Da queste parti i dati economici sono una speculazione filosofica. Entro la fine dell'anno potrebbe decidersi lo status del Kosovo tuttora retto dal protettorato delle Nazioni Unite dopo la guerra del 1999. «Indipendenza condizionata» è la formula che circola più correntemente negli ambienti internazionali. Si tratta di vincolare il passaggio alla piena sovranità al soddisfacimento di alcune clausole, in particolare il rispetto delle minoranze ed il ritorno dei profughi. I Kosovari sono impazienti di poter prendere in mano il proprio destino liberandosi per sempre dell'ossessione di Belgrado ma la comunità internazionale non si fida ancora e vuole gesti concreti.
La Serbia, inoltre, non sembra disponibile ad alcuna concessione. Incontriamo il primo ministro Kosumi che recentemente ha preso il posto di Haradinaj incriminato dal Tribunale Penale Internazionale per i Crimini di Guerra nella ex Jugoslavia. Ci ribadisce il suo impegno per un paese aperto e democratico.
Le organizzazioni internazionali, intanto, stanno gradualmente preparando il disimpegno. L'emergenza sembra conclusa e nel frattempo in altri angoli del mondo sono scoppiate altre crisi. Il Kosovo non fa più notizia.
Durante il volo che da Pristina mi porta a Vienna il pilota annuncia l'itinerario. I muri terrestri si allungano fino al cielo. Lo spazio aereo serbo, infatti,è precluso agli aerei in partenza dal Kosovo che sono così obbligati ad allungare la rotta su Bulgaria e Romania.
Ad ognuno il suo pezzo di terra ed il suo pezzo di cielo. Ma almeno il paradiso sarà in comune?
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