A Chişinău, una sparuta comunità ebraica cerca di sottrarre la propria storia all’oblio. L’antica capitale della Bessarabia, era abitata per metà da ebrei. Un giorno, nell’aprile del 1903, l’incubo dei pogrom si materializzò. Prima del nazismo, prima ancora della Shoah, è in questa città dimenticata che ha avuto inizio il secolo dell’odio
L’intrico di strade alle spalle di viale Stefano il Grande sono un mercato all’aperto. Un bazar, ma senza il fascino dei bazar orientali. C’è solo polvere e confusione, marciapiedi rotti e fustini di detersivo importati dall’Ucraina. Merce scadente dalla Cina e pezzi di carne poggiati sui banchi di cemento. Le etichette stanno a un sole che non ce la fa a sbiadirle. Sono le giornate soleggiate quelle più fredde in assoluto. Oggi fa più di venti sottozero. Le verdure sono chiuse in teche di legno e vetro, tenute al caldo da file di candeline. Sembrano altari votivi di una divinità vegetale.
E poi c’è la gente, i moldavi. Quelli che devono risparmiare ogni singolo leu per mettere assieme il pranzo con la cena, e la spesa la vengono a fare qui e non al supermercato. Qui, dove ci sono le vecchie in fila lungo il muro con una manciata di patate o un ciuffo di verza poggiati su un foglio di giornale. Battono i piedi per terra dal freddo. Arrivano fino in fondo alla stazione degli autobus, dove gli autisti strillano i nomi di località mai sentite, puntini anonimi sulla mappa di uno dei paesi europei meno conosciuti.
Cerco la via Habad Liubavici già da un pezzo. Dev’essere da queste parti, ma non riesco a trovarla. Chiedo in giro, ma nessuno sa indicarmi la via in cui si trova l’ultima sinagoga di Chişinău. Intanto mi sono perso tra le merci di Piaţa Centrală, tra i colori delle etichette e i cartelli dei prezzi scritti con mano tremola. Comincia a imbrunire.
Dove tutto ebbe inizio
Agli inizi del Novecento nella capitale della Bessarabia – la regione storica che coincide con l’odierna Moldavia e parte di Romania e Ucraina attorno al delta del Danubio – si contavano una settantina di sinagoghe e una dozzina di scuole ebraiche. Ed erano sempre piene. All’incirca metà degli abitanti di Chişinău erano ebrei, il calendario della festività ebraiche cadenzava la vita della città e l’yiddish era la seconda lingua dopo il rumeno.
Non poteva durare. L’onda d’urto dell’antisemitismo moderno stava accumulando la sua tensione in tutta la Russia zarista, alimentata da una serie di credenze culminate nella pubblicazione dei falsi Protocolli dei savi di Sion. Lo tsunami d’odio si abbatté con una veemenza mai vista prima su Chişinău tra il 19 e il 20 aprile 1903, con il primo grande pogrom del Novecento, e poi di nuovo nel 1905.
La macchina del male assoluto s’era messa in moto, e non si sarebbe più fermata, fino alla decimazione della popolazione ebraica con l’arrivo degli Einsatzkgruppen, le squadre della morte naziste che insanguinarono l’intera Europa orientale.
È qui che ha avuto inizio il secolo della Shoah
Il sole è sceso dietro le basse costruzioni e il buio che sale dai marciapiedi è squarciato solo dai fari delle auto. L’illuminazione pubblica non è stata ancora accesa, o non c’è proprio. Chiedo ancora a un vecchio col colbacco, ma neppure lui sa della via, né della sinagoga.
In mezzo a due botteghe di detersivi si apre un vicolo immerso in un’oscurità collosa, un buio silenzioso come il grembo di una madre. È l’unica via diagonale in una griglia di strade ortogonali, rompe le maglie della pianta come un taglio in una rete. Cerco di non scivolare sul ghiaccio mentre vengo guidato dal bagliore di tre grandi finestre al piano terra. Col tramonto si festeggia la fine dello shabbat.
Il tempo della festa
Non sono più di una quindicina in tutto. Si spezza il pane, si beve il vino. Il rabbino ripete i suoi amèn come una nenia più vecchia del mondo stesso. Non capisco perché continuiamo a vedere le differenze tra le tre grandi religioni abramitiche e a ignorarne la matrice comune, il legante che rende priva di significato l’espressione «scontro di civiltà».
Rabbi Avrhom è un omone largo e robusto come una credenza in noce. Indossa un pesante pastrano nero di foggia ottocentesca e lo shtreimel, il tradizionale colbacco degli ebrei ashkenaziti. Sembra che porti un pastore tedesco acciambellato sulla testa. Mentre i fedeli si fanno sotto l’arca per il rito della candela, lui sta un po’ in disparte e si sposta da un lato all’altro, pare che controlli la celebrazione come un regista o un coreografo, senza prendervi realmente parte. "Siete ebreo?", mi chiede sottovoce. "No", gli rispondo. "E davvero siete interessato agli ebrei di Chişinău? Non credevo che la gente in Italia volesse sapere di noi, sono contento". Ridacchia e si allontana di nuovo.
Gli ebrei rimasti a vivere nella capitale moldava sono pochi, pochissimi, e ancora meno prendono parte alla vita religiosa. Appartengono alla comunità Chabad Lubavitch, una corrente del chassidismo nata in Bielorussia nell’800. Nell’arco del Ventesimo secolo sono quasi tutti emigrati, in gran parte verso l’America, dove è oggi il suo principale centro.
Zushe vive a New York. "Brooklyn", specifica. Ha una sottile barba che scende vaporosa dalle guance rosee e gli dà più anni di quanti ne abbia in realtà. È lui l’anello di collegamento con la casa Chabad, come vengono chiamati i centri religiosi, in America. "È la comunità negli Stati uniti a finanziare le attività qui in Moldavia, non le istituzioni in Israele. Poco a poco abbiamo rimesso su la sinagoga, sistemato la scuola e il centro culturale. Mancava tutto, persino le copie della Torah e gli arredi sacri".
Zushe vola a Chişinău un paio di volte l’anno. Il suo è un punto di vista, come dire, meno provinciale dei suoi compagni moldavi, se è vero che la distanza aiuta a veder più chiaro. E quando gli chiedo come va con gli abitanti di Chişinău, lui fa spallucce: "Sai, qui la gente pensa a sopravvivere, non è che ha tempo per problemi esistenziali". Ma i rapporti con la chiesa ortodossa e un antisemitismo strisciante che trova nell’ignoranza e nella povertà il suo terreno fertile sono qualcosa di più di una semplice questione esistenziale.
Crocifisso contro Menorah
Nel 2009 l’amministrazione cittadina acconsentì a erigere un grosso hanukkiah – un menorah a nove braccia usato nei riti Chabad – in pieno centro città. Ma per i fedeli ortodossi si trattò di un affronto alla loro Moldavia cristiana. Un corteo sfilò per le vie del centro al seguito di un prete che brandiva una grossa croce di legno. Cantavano inni sacri e sventolavano striscioni che inneggiavano a Cristo. Il prete stesso tirò giù l’hanukkiah a colpi di martello e al suo posto piantò la croce mentre i fedeli si segnavano il petto. I pezzi furono poi posati ai piedi della vicina statua di Stefano il Grande, re della grande Moldavia che, disse il prete, "ha difeso la nostra patria da tutti i tipi di giudei".
Il fatto è che la coesistenza di religioni diverse è ancora oggi tutt’altro che scontata. E, benché le autorità si siano affrettate a rimettere a posto l’hanukkiah, quasi non passa giorno che dalla facciata della sinagoga si debbano cancellare svastiche e simboli delle SS. La Moldavia si fregia del non invidiabile primato di Paese più povero d’Europa, e povertà e ignoranza sono l’humus di ogni fondamentalismo, anche cristiano.
Un posto dimenticato
Per rendersi conto della coltre di oblio che si è posata sulla comunità Chabad, non c’è luogo migliore del vecchio cimitero ebraico. Com’era facile immaginare è tutt’altro che semplice trovarlo. Occupa una collina poco fuori dal centro, dalle parti di via Milano. C’è da mettere le gambe in spalla e girare, perché chiedere in giro non serve a niente, nemmeno ai tassisti. Costeggio per una buona mezz’ora uno sberciato muro di cinta. Al di là dev’esserci il cimitero, ne sono sicuro, ma non riesco a trovare l’entrata. Sono tentato di scavalcare, quando in mezzo alle macchine parcheggiate intravedo un’apertura. È più che altro una breccia, che non ha nulla di solenne a parte un cancello in ferro. All’interno le lapidi sono scalzate dalle radici degli alberi, o ricoperte dai rampicanti. Alcune tombe sono in pezzi, dovunque si respira aria di abbandono e morte.
Le vittime del 1903 non sono qui. Furono seppellite altrove, ma negli anni 60 i sovietici ci passarono su con le ruspe e ci fecero un parco. La memoria andava cancellata.
Fu una bufala a scatenare il primo pogrom. Il Bessarabets, un giornale in lingua russa, pubblicò la notizia di un giovane cristiano ucciso per un inesistente rito ebraico, l’accusa del sangue. Bastò per accendere una sete di sangue che accecò la gente comune. La caccia all’ebreo si svolse casa per casa, donne e bambini furono accoltellati nei loro letti, i rabbini ammazzati per strada a bastonate, le sinagoghe date alle fiamme, le abitazioni razziate.
Nessuno fece niente per fermare l’odio che scorreva come adrenalina, né la polizia, né alcuna autorità. E nessuno fu punito. Da quel giorno la paura divenne parte della vita degli ebrei dell’est, perché era chiaro che la furia contro di loro era pronta a scoppiare in qualunque momento senza più bisogno di una giustificazione. Per 600 volte che fu usata la parola pogrom nell’impero russo bastò un pretesto qualunque, e a volte nemmeno quello.
Il guardiano del cimitero, che non si era nemmeno visto quando ero entrato, mi si avvicina con aria minacciosa. Non c’è nessun altro oltre me in mezzo a 20mila tombe. "Cosa vai cercando?". Il suo cipiglio è giustificato, fa il suo lavoro. Le tombe sono state profanate più di una volta, gli atti vandalici non si contano. "Non viene mai nessuno qui" si giustifica "è un luogo abbandonato a se stesso. E ai morti". Poi, strisciando i piedi, torna lungo il viottolo verso la sua casupola. Dall’alto della collina la vista spazia sulle ciminiere della città. Fumano.
Tel Aviv andata e ritorno
Il centro commerciale Mall Dova gioca con le parole. È l’unico vero mall di tipo occidentale in tutta la Moldavia, ma senza le code alle casse e la ressa per i saldi. L’edificio in vetro e cemento si staglia tra le strade fangose.
Le insegne dei marchi globali pendono silenziose sul marmo lucido della galleria e i commessi non si ammazzano certo dal lavoro. In una sala sottratta ai negozi c’è una mostra organizzata dal centro culturale israeliano.
Alcune foto di Tel Aviv si spartiscono le pareti bianche con delle bandiere israeliane. La spiaggia di Jaffa con i suoi surfisti e i grattacieli sullo sfondo stride in maniera irreparabile con il grigiore di cui è impregnata la città là fuori. "Sì, sembra un miraggio", dice Zalman, "ma in realtà molti di quelli che sono emigrati in Israele negli scorsi anni stanno tornando. Anche lì non c’è più lo stato sociale di un tempo, mentre qui un orticello lo si rimedia sempre. Gli insediamenti per gli immigrati sorgono ormai nelle aree più depresse del Paese, lontano dalle spiagge di Tel Aviv. Molti non resistono a lungo al deserto e preferiscono tornare dove sono nati e vissuti".
Chişinău non è una città facile, ma è il posto migliore del paese per chi ha le carte giuste da giocare. Nella boulangerie Crème de la crème non c’è da sgomitare per trovare un tavolo libero, ma non si può dire che manchino i clienti. C’è una sorta di selezione naturale: è la colonna di destra del menù a farla. Il tipo che gli si adatta parcheggia il Suv sul marciapiede proprio davanti all’entrata, indossa vestiti italiani e ha una serie completa di gadget elettronici con una mela sul dorso. Il locale non poteva avere un nome più appropriato.
Di ritorno alla sinagoga è la quiete di quel luogo a colpirmi adesso, la quiete e il silenzio che si conquistano al solo girare l’angolo dalla via del mercato. Una bottega grande quanto una cabina del telefono vende cianfrusaglie degne manco di un mercato delle pulci. Provo a scattare una foto, ma l’uomo nascosto dietro a una pila di scarpe vecchie mi caccia a male parole.
È domenica e la sala di preghiera è vuota, se si escludono la guardia all’ingresso e due bambini che scorrazzano di qua e di là. Poi da una porta laterale che dà sulla casa del rabbino esce Zushe. Mi saluta come se fossimo vecchi amici, io gli racconto un po’ dei miei giri, del cimitero e dello stato di abbandono in cui si trovano molte tombe. "Dobbiamo occuparci prima di tutto dei vivi. E poi, non rimangono molti parenti di quelli che sono stati seppelliti là".
Nelle sue parole riconosco un pragmatismo che appartiene forse più alla cultura anglosassone in cui vive che a quella di cui è imbevuta questa terra, fatalista e spirituale. Perché il gilgul, il vortice delle anime strappate con la violenza ai corpi, continua a girare su Chişinău con la forza di un tornado invisibile ma troppo potente per non sentire le scintille che sprigiona. Forse è anche compito dei vivi – dei sopravvissuti – porre fine al loro vagare, a cominciare dalla cura della memoria.
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