Come la guerra ha cambiato il paesaggio. E le persone non ritrovano più se stesse.Un reportage dal Montenegro pubblicato sulla rivista Questo Trentino e ripreso da Osservatorio Balcani e Caucaso

24/03/2001 -  Davide Sighele

Piegato sulla vasca da bagno. Il lavandino non funziona e serve ormai solo come appendi asciugamani. Rimane, è vero, lo specchio, ma solo per quando ci si rade. Allora è un continuo avanti ed indietro tra la propria immagine riflessa nello specchio e l’acqua corrente nella vasca da bagno. Il rasoio sbattuto delicatamente sui lati laccati della vasca in modo che le sue lame si liberino delle impurità e ritornino ad essere efficaci.

Sputo il dentifricio e piegato continuo a spazzolarmi con energia i denti. Piegato, storto, perché non voglio sputare dall’alto e perché non ho bisogno di specchiarmi. Ne avrò bisogno solo più tardi, come ultimo gesto, per vedere se un po’ di dentifricio ha resistito all’acqua sulle labbra.

Mi lavo i denti cercando nell’azzurro e nel sapore del Mentadent l’alienazione dai miei pensieri. La pulizia dalla sporcizia, dal fango e dalle macerie. Dal fumo delle sigarette, continuamente alla bocca tra il racconto di una sofferenza e l’altra. Tra i ricordi di ciò che ora è irrimediabilmente perso. Tra i pensieri miei ed i pensieri loro. Tra i miei silenzi e le mie parole, che a volte cercano di portare speranza, a volte tacciono per non dire bugie o troppe verità.

Spazzolo per liberarmi dei caffè continuamente offerti, continuamente bevuti. Innaffiati di succhi fatti in casa e bicchierini di grappa. La vescica non è in grado di resistere più di due ore di fila.

"Mi scusi, il bagno?". "Un attimo, prendo la chiave".

Usciamo nel corridoio dell’edificio nel quale risiedono profughi originari del Kosovo. Cartoni pieni di cose accatastate. Nelle stanze non vi è abbastanza spazio. Una donna bionda esce dalla porta piangendo. Qualcuno ha lanciato una mattonella da sotto, dal cortile. Hanno mandato in frantumi un vetro e sua figlia stava dormendo proprio sotto quella finestra. Non si è fatta niente, ma la donna è scossa, gli occhi e le guance molto arrossate. "E’ un po’ matta" - ci dicono. Qualcuno le si raccoglie attorno, altri proseguono e continuano a scendere o risalire le scale. La chiave. Perché altri non possano usare quel bagno sul corridoio. A ciascuno il suo, a ciascuno le sue sporcizie. Tutt’intorno l’odore della convivenza.

Continuo a spazzolare i denti e sputo più volte. Il dentifricio e la saliva scorrono lenti verso il tubo di scarico, poi un lieve vorticare. Non scendono, non precipitano nelle tubature. Stentano ai margini per poi, sospinti dall’acqua, di nuovo allontanarsi dal debole vortice del tubo di scarico. E’ quasi tutto intasato, chiudo il rubinetto, risciacquo ancora una volta lo spazzolino e continuo a spazzolare, a cercare di ripulire i miei pensieri. Dimenticare.

Busso. Sulla porta il nome della famiglia che vive nella stanza è scritto con un pennarello rosso. Dasic Milan. Mi apre una ragazza e dietro di lei un vecchio. Io immobile sull’uscio con una fotografia della loro casa. Vista da lontano però, con tutta la montagna dietro ed un pianoro coperto di neve e macerie sul davanti. Pianoro che è stato usato come discarica per svuotare la città distrutta e ferita dei suoi resti, di ciò che non serviva più. Di ciò che la guerra aveva vomitato, di ciò che gli uomini avevano vomitato. Carcasse di macchine incancrenite, calcinacci, macerie e tutta l’intimità delle case stuprate.

Avevo parlato giorni prima con la madre di quella ragazza. Mi aveva mostrato una foto della casa, la scorsa estate aveva avuto la fortuna di riuscire a farsi scortare fin là da alcuni soldati italiani. Sapeva già che era stata distrutta ma desiderava avere un’altra foto.

Seguendo le indicazioni avevo trovato ciò che restava della casa e da lontano l’avevo fotografata. Ma la ragazza che avevo di fronte non vedeva nulla sulla fotografia che le porgevo. Io indicavo la casa in un angolo del paesaggio, provavo a descrivere la strada che avevo fatto per arrivare al punto dove avevo scattato la fotografia, angolazione e prospettiva. Ma lei non riusciva ad orientarsi; il viso perso davanti ad uno sconosciuto che ti dice che quella è la tua casa e tu non la riconosci, non sai, non ricordi. "Sige, sì, abitavo proprio a Sige".

La foto le rimane in mano, il suo sguardo smarrito, quasi a scusarsi con noi per quella mancanza. "Eppure la montagna è quella, ma il resto no, il resto non so". Noi non entriamo, lei ci saluta ancora una volta e chiude la porta.

Non ho ancora finito di lavarmi i denti, ancora insisto, piegato sulla vasca. Come se si potesse nei loro occhi disinfettare l’odore triste e tetro delle macerie.


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