Con la guerra in Nagorno Karabakh si sono ridefiniti gli equilibri regionali. In tutto ciò l'UE è rimasta a guardare ma potrebbe esserci ancora spazio di manovra per rientrare in gioco. Bruxelles saprà farlo?
Era il tre settembre del 2013 quando l’allora presidente dell’Armenia Serzh Sarkisian annunciava ufficialmente l’ingresso del suo paese nell'Unione Economica Euroasiatica, il blocco commerciale promosso dalla Russia.
È bene fissare questa data nella memoria perché quel giorno il destino della piccola repubblica caucasica è stato definitivamente consegnato nelle mani di Mosca. Non a caso l'annuncio è avvenuto nella capitale russa dove Sarkisian era stato convocato da Vladimir Putin per un colloquio urgente.
Due mesi prima, a fine luglio, l'Armenia aveva concluso con l'Ue le trattative dell'Accordo di Associazione che avrebbe integrato il paese nello spazio economico europeo. Per tre anni i suoi tecnici avevano febbrilmente e meticolosamente negoziato con quelli di Bruxelles tutti i capitoli del trattato. La firma era prevista a novembre a Vilnius, al vertice fra l'Unione Europea e i paesi del Partenariato Orientale.
Quella firma avrebbe compromesso il futuro delle relazioni commerciali con la Russia. Poi, come un colpo di scena, il clamoroso e brusco voltafaccia con Bruxelles spiazzata dall'improvviso cambio di rotta di Yerevan verso Mosca. Qualche avvisaglia, in realtà, si era già colta nei giorni precedenti ma le voci non erano state confermate.
Cosa si sono detti Putin e Sarkisian durante quell'incontro o, meglio, cosa ha intimato Putin a Sarkisian per fargli cambiare idea? Anche se i dettagli non sono noti è presumibile che l’inquilino del Cremlino abbia semplicemente ricordato al collega che erano russi i soldati che presidiano l’Armenia ed è sempre grazie ai russi se l’Armenia poteva mantenere il controllo di una parte significativa di territorio dell'Azerbaijan incluso il Nagorno Karabakh.
Quel giorno Sarkisian ha accettato che il suo paese diventasse una pedina del Cremlino sullo scacchiere della geopolitica nell’ex spazio sovietico; quel giorno l’Armenia è diventata, di fatto, un paese a sovranità limitata. E come tutte le pedine quando in una partita a scacchi un giocatore sa di potere arrivare a un pezzo più importante se necessario sacrifica quelli piccoli.
L’accordo di cessate il fuoco che dal 1994 aveva congelato il conflitto del Nagorno Karabakh poteva resistere solo con la complicità e la regia russa. D’altronde era stato il supporto militare della Russia alle forze armene a determinare allora l’esito della guerra con la sconfitta cocente del male equipaggiato esercito azero.
Da quel momento la classe politica al potere a Yerevan ha continuato a illudersi e a illudere la propria opinione pubblica convincendola che lo status quo poteva essere prolungato a piacimento fino a trasformarsi un giorno in piano di pace definitivo.
L’Armenia ha sprecato per ventisei anni una posizione di forza che le avrebbe consentito di dettare le condizioni per la soluzione complessiva del conflitto e rimuovere l’ostacolo principale alla cooperazione fra i paesi del Caucaso meridionale.
Troppi sono stati i cattivi consiglieri, comprese le diplomazie del vecchio continente che non hanno mai avuto il coraggio di dire a chiare lettere al governo armeno che la situazione sul terreno era insostenibile. Oggi, purtroppo, tutti quei nodi sono venuti al pettine.
Il cessate il fuoco del nove novembre ha consentito al Cremlino di aggiungere l’ultimo tassello mancante al disegno di controllo o di coercizione dei sei paesi che fanno da cuscinetto fra Federazione Russa e Unione Europea. Anche in Azerbaijan, come in Bielorussia, Moldavia, Ucraina, Georgia e, ovviamente, Armenia da qualche settimana sono presenti militari russi e ci resteranno per almeno cinque anni che, si può scommettere, saranno prorogati.
Baku, alla fine, ha dovuto ingoiare una pillola che avrebbe preferito evitare. E non è escluso che nel medio periodo anche l'Azerbaijan si avvicini gradualmente all’Unione Economica Euroasiatica. Il Nagorno Karabakh è stato ridotto, in pratica, ad un protettorato russo. Il suo status è rimasto intenzionalmente indefinito. Diventerà utile per Mosca, al momento opportuno, come arma di ricatto per obbligare, a seconda della convenienza, sia Baku che Yerevan a non sgarrare.
Per l’Armenia si è aperto, adesso, un capitolo drammatico destinato a marchiare indelebilmente la storia già, purtroppo, tragica del paese. Il Nagorno Karabakh nel corso degli anni è stato artatamente trasformato in feticcio politico, Stepanakert, la piccola capitale, in una Gerusalemme armena. A Yerevan c’è chi giustificava e rivendicava quella regione come una sorta di compensazione storica per il torto immane subito per mano dell’Impero ottomano un secolo prima.
Nikol Pashinyan, il primo ministro salito al potere con la rivoluzione di velluto è, oramai, la controfigura del leader vincente che doveva dare la sterzata ad un paese afflitto da un declino irreversibile. Il suo mandato è a forte rischio e comunque, non sembra avere più la forza per portare a termine le riforme sia politiche che economiche promesse. Il rovescio bellico ha "normalizzato" la situazione in linea con gli obiettivi del Cremlino.
La diplomazia europea non ha saputo andare oltre a uno sterile e scontato invito alle parti di tornare al tavolo negoziale. Ancora una volta l’Europa si è dimostrata incapace di prendere un’iniziativa credibile per convincere le parti a riprendere il dialogo.
Mentre Russia e Stati Uniti nel corso della crisi riuscivano, a turno, a ottenere sulla carta accordi di cessate il fuoco durati, purtroppo, lo spazio di poche ore l’Unione Europea assisteva passiva tergiversando sul da farsi.
Adesso, a bocce ferme, si apre una nuova fase. Dalla fine dell’Unione Sovietica il Caucaso meridionale non ha mai conosciuto un vero periodo di pace. Solo qualche sprazzo di calma apparente infarcito da minacce e scaramucce tra colpi di kalashnikov e arsenali sempre più gonfi.
Armenia, Azerbaijan e Georgia hanno scelto direzioni divergenti rinunciando a sviluppare le sinergie necessarie per fare decollare la regione. L’idea di una Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione nel Caucaso non è nuova. Varrebbe la pena di riproporla.
Armenia, Azerbaijan e Georgia siederebbero attorno a un tavolo con i rispettivi sponsor: Russia, Turchia e Unione Europea.
Riaprire tutte le frontiere, quella fra Turchia e Armenia, quelle fra Abkhazia/Ossezia del Sud e Georgia, quella fra Nagorno Karabakh e Azerbaijan, dovrebbe essere il primo obiettivo per il rilancio degli scambi a tutti i livelli, politici, economici, commerciali e umani.
Il secondo obiettivo, altrettanto importante, dovrebbe essere un accordo di disarmo graduale o almeno di riduzione degli armamenti per tutta la regione disinnescando ogni potenziale minaccia.
Un’occasione per l'Ue di rientrare in gioco. Ammesso che ne abbia la forza e la capacità.
Dossier
Il 27 settembre 2020 si è aperto un nuovo, grave e violento capitolo del conflitto tra Armenia ed Azerbaijan sul Nagorno Karabakh, con centinaia tra morti e feriti. Un conflitto che in trent'anni non è mai stato risolto. Un nostro dossier
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