Cartina del Caucaso con sopra un soldatino © fifg/Shutterstock

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Un anno fa scoppiava la cosiddetta guerra dei 44 giorni tra Azerbaijan, Armenia e i secessionisti del Nagorno Karabakh. Qual è la situazione sul campo ad un anno di distanza? E che nome dare a questa fase di non pace?

10/11/2021 -  Marilisa Lorusso

Nella notte fra il 9 e il 10 novembre 2020 veniva firmata la dichiarazione trilaterale di Russia, Armenia e Azerbaijan che segnava la cessazione dei combattimenti fra Armenia, Azerbaijan e i secessionisti del Nagorno Karabakh. Il conflitto armato del 2020 viene chiamato la guerra dei 44 giorni, o la seconda guerra per il Nagorno Karabakh. Su come definire la nuova situazione che si è creata da allora invece non c’è accordo. Le posizioni ufficiali sono distanti e ancora incompatibili, a indicare quanto ancora sia rimasto da negoziare per trovare una soluzione politica al secessionismo del Nagorno Karabakh, exclave armena in territorio azero.

Per il governo di Baku la questione è risolta, non esiste più il secessionismo armeno, e questa è la soluzione conclusiva a cui Armenia e armeni del Karabakh si devono adattare. La questione del Karabakh è chiusa, non esiste più come entità autonoma e in via provvisoria vi stazionano i peacekeeper russi. Per Yerevan e Stepanakert invece questo è un cessate il fuoco in attesa che con l’ausilio della mediazione internazionale venga negoziata una nuova realtà politica. Per gli armeni questa realtà si dovrà conformare al principio di autodeterminazione dei popoli, e quindi lo scopo finale è ottenere il riconoscimento dell’indipendenza del Nagorno Karabakh nei suoi confini attuali ma - soprattutto Stepanakert - non si nasconde di voler riottenere il controllo delle aree riconquistate dagli azeri ma che erano parte della Repubblica Autonoma del Karabakh in epoca sovietica, in primis la città storica di Shusha.

Fase post-bellica, o secondo status quo, o secondo cessate il fuoco: mentre rimane impossibile trovare una definizione unanime per questo periodo, a un anno di distanza da quando i combattimenti si sono (quasi) fermati, cosa sta succedendo nelle aree contese?

Il Karabakh dei vincitori

Nelle aree controllate dall'Azerbaijan non ci sono più armeni, ma ancora non ci possono essere gli azeri. Il recupero delle aree riconquistate si è dimostrato più ostico del previsto per l’alto numero di mine, sia nel Karabakh che nelle regioni della cintura di sicurezza, e per l’alto grado di distruzione e abbandono delle aree nell’ex cintura di sicurezza.

Nell’ex Karabakh, Shusha è diventato il nuovo centro e simbolo della vittoria. Baku celebra la vittoria l’8 novembre, il giorno in cui Shusha è capitolata decretando le sorti della guerra. Nel 1977 Heydar Aliyev, padre dell’attuale presidente Ilham, allora al timone della Repubblica Socialista Sovietica di Azerbaijan, aveva dichiarato Shusha riserva nazionale di ricchezza storica e architettonica. Nel maggio 2021 Ilham Aliyev, tornato in controllo della città, l’ha dichiarata Capitale Culturale dell’Azerbaijan. Si prevede una riqualificazione della città perché torni alla sua gloria passata e che sia città esemplare della cultura e dell’architettura azera.

Questo crea frizioni con gli armeni, che osservano preoccupati ormai da lontano quella che per loro è la “turchizzazione” di territori che reclamano come storicamente armeni. I lavori di restauro della cattedrale di Ghazanchetsots a Shusha hanno sollevato l’indignazione armena perché ne altererebbero l’integrità architettonica e culturale. Ancora l’UNESCO non ha accesso ai territori riconquistati. Durante il Consiglio Internazionale dei Ministri della Cultura dell’Organizzazione dei Paesi di Cultura Turcofona l’Azerbaijan ha proposto di fare di Shusha la Capitale del mondo turco nel 2023.

Il governo azero ha anche chiesto a Google di cambiare i toponimi su Google map nelle zone riconquistate , ove compare ancora quello armeno.

La ripresa del controllo di questi territori ha implicato, oltre che un rilancio culturale dell’identità azera nelle aree riconquistate, massicci investimenti per favorire il rientro degli sfollati della prima guerra del Karabakh. Circa il 65% di quanti avevano abbandonato il Karabakh divenuto armeno hanno ora espresso la volontà di tornare. Questo comporta una ricostruzione massiccia. La regione di Kalbajar da settembre è raggiunta da una nuova rete elettrica , e vi sono confluite aziende turche interessate allo sfruttamento delle risorse minerarie .

Il governo azero prevede di riuscire, in qualche decennio, a ripopolare le aree riconquistate, una volta che la rete infrastrutturale e il tessuto produttivo saranno riattivati. Durante una visita a Füzuli, Aliyev ha dichiarato che per il 2040 la città potrà ospitare 50.000 azerbaijani. Durante la visita il presidente ha inaugurato e ispezionato varie strutture , come un parco, l’aeroporto, la nuova autostrada Füzuli-Ağdam, e lo smart village di Dövlətyarlı con 450 case. All’inaugurazione dell’aeroporto ha partecipato il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan. Oltre alle infrastrutture civili è in corso una grande collocazione di risorse per nuovi siti militari. La guerra è finita, ma non troppo.

Il Karabakh dei vinti

Niente tagli di nastri e visite di capi di stato per la comunità armena arroccata in quanto rimane del Nagorno Karabakh (nella mappa sotto in arancione). Qualche scambio di fuoco lungo i confini, qualche attraversamento involontario, e la stessa insicurezza che si respira ora lungo tutto il confine armeno-azero.

Fonte: Emreculha / wikimedia CC

Fonte: Emreculha / wikimedia CC

Anche per gli armeni è partita una ricostruzione per recuperare i danni della guerra. Con il sostegno dell’Armenia è prevista la costruzione di nuovi appartamenti, fino a 3000. Yerevan e Stapanakert temono un esodo, uno spopolamento dell’area data la difficile situazione post-bellica . Gli armeni hanno perso miniere, pascoli, campi. Nell’insieme il 60% del territorio agricolo è passato in mano azerbaijana. Per di più l’enclave vive in uno stato di tensione perenne, è isolata e l’accesso al territorio nonché l’approvvigionamento da fonti esterne sono più difficili che prima della guerra. I peacekeepers russi lavorano per il ripristino dei servizi elettrici, idraulici, idrici, ma alcuni problemi in assenza di una soluzione politica potrebbero dimostrarsi insormontabili. A settembre l’Ombudsperson armeno ha lanciato l’allarme sull’accesso all’acqua. A Stepanakert il 20% della popolazione non aveva accesso all’acqua corrente, e il problema era diffuso nell’80% del territorio fuori dalla capitale de facto. Le fonti di acqua sono ora sotto il controllo di Baku . Senza controllo sulle risorse idriche il secessionista Nagorno Karabakh rischia di trovarsi senza elettricità, visto il largo uso di energia idroelettrica.

La situazione rimane drammatica, il rischio di spopolamento reale, soprattutto nelle aree percepite come più pericolose perché più a ridosso della presenza azera. Stepanakert ha circa 15.000 abitanti in più, sfollati delle zone riconquistate e armeni che hanno preferito trasferirsi nel centro principale della regione.

Un anno dopo l’accordo trilaterale del 2020 il peso della non-pace grava ancora assai pesantemente, sui vinti, ma anche sui vincitori. Le ambizioni di ricostruzione di Baku si devono costantemente confrontare con il rischio delle mine, e che al di là delle dichiarazioni trionfalistiche, rimangono in Karabakh gli armeni che non accetteranno mai di essere integrati nell'Azerbaijan e l’esercito russo, ufficialmente “ospite” ma senza che sia previsto un meccanismo unilaterale per garantirne fra 4 anni un eventuale ritiro.


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