Diversamente dal passato la campagna per le presidenziali del prossimo 10 novembre è particolarmente sottotono. Il presidente uscente Klaus Iohannis, dato per favorito, è quello che più sembra avvantaggiarsi di questo stato di cose. Un'analisi
C’era una volta in Romania l’elezione presidenziale, la più attesa, la più sentita, la più importante. C’era una volta il grande dibattito televisivo che precedeva il voto, fatto di aspre schermaglie verbali e contrapposizioni frontali. C’era una volta, appunto.
La campagna elettorale che conduce alle elezioni del prossimo 10 novembre verrà ricordata dai più come una non-campagna, o forse non verrà ricordata affatto. Risicata copertura mediatica, scarso interesse popolare, nessun antagonismo degno di nota. La Romania si appresta a scegliere il suo presidente nel silenzio generale, distratta dalla nascita del nuovo governo e da altre amenità quotidiane. Lontani i tempi degli scontri Iliescu vs. Constantinescu, che rappresentavano due visioni del paese alternative e dicotomiche. Persino il 2014 appare un’epoca lontanissima: la rimonta dell’attuale presidente Klaus Iohannis e la prima elezione di un membro di una minoranza etnica, avevano caricato la tornata di cinque anni fa di un significato oggi impensabile.
Ma quali sono le cause di questa campagna dimessa?
Iohannis e la scelta del silenzio
Il più interessato a mantenere un profilo basso è senza dubbio Klaus Iohannis, il favorito secondo i sondaggi, che lo attestano intorno al 40%. Come spesso accade a chi è in vantaggio, il presidente uscente ha rifiutato ogni confronto con i suoi avversari, cercando di non suscitare sommovimenti emozionali e istintivi nella popolazione e parlando soltanto in veste istituzionale. Iohannis ha gestito nell’ombra la delicata transizione che ha portato alla nascita del nuovo governo liberale, che molti ritengono una sua diretta emanazione. La genesi del nuovo esecutivo rappresenta una sua chiara vittoria politica; in caso di rielezione potrà infatti contare su un governo fedele e accondiscendente, al contrario di quello social-democratico con cui ha aspramente battagliato negli ultimi anni.
I romeni sembrano ancora apprezzarlo, ma non sono di certo travolti da una debordante passione. La presidenza di Iohannis si può definire senza infamia e senza lode: ha preso forti posizioni anti-governative in occasione delle leggi “salva-corrotti” che hanno portato decine di migliaia di romeni in piazza, ha sempre sostenuto il cammino europeista e filo-occidentale della Romania e ha ben rappresentato il paese all’estero, grazie a dei modi pacati e ad uno stile istituzionale impeccabile che lo hanno fatto apprezzare anche nelle cancellerie europee.
Nei suoi cinque anni a palazzo Cotroceni non mancano tuttavia le ambiguità: ha spesso dato l’impressione di agire soltanto in vista della rielezione, impegnandosi in machiavellici calcoli politici ed evitando atti forti e realmente di rottura. Molti gli imputano soprattutto una politica estera dimessa, limitata a comparsate prestigiose ma priva di un reale obiettivo di medio-lungo termine. La marginalità della Romania in occasione della crisi politica in Moldavia, paese tradizionalmente al centro delle preoccupazioni geopolitiche di Bucarest, lo dimostra. Particolarmente cocente è stata poi la sconfitta a scapito dell’Estonia nella corsa al seggio di membro non permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Iohannis sa che la sua presidenza si giudicherà soprattutto nel campo della politica estera, e dovrà sicuramente fare di più in caso di ottenimento del secondo mandato.
Avversari insipidi
Il consenso di cui gode Iohannis nei sondaggi si deve anche alla pochezza dei suoi avversari. Il partito social-democratico (PSD) candida l’ex premier Viorica Dăncilă, che nei suoi anni di governo si è distinta più per le gaffes grammaticali che non per effettive realizzazioni. I sondaggi la danno intorno al 22% ma in un ipotetico secondo turno contro Iohannis non dovrebbe avere possibilità di successo.
Situazione diversa quella di Dan Barna, candidato della coalizione USR-Plus, ascrivibile al campo del centro-destra moderato: Barna è stato apprezzato per le sue battaglie contro la corruzione e la legalità, ma è un personaggio poco carismatico, quasi trasparente, senza caratura. Secondo le ultime rilevazioni sarebbe in risalita, intorno al 19%, e se dovesse arrivare al secondo turno potrebbe seriamente impensierire il presidente uscente. A rendere problematica la scalata di Barna verso il ballottaggio è stata la candidatura di Theodor Paleologu, un ambiguo personaggio con un passato da ambasciatore e professore universitario, sostenuto dall’ex presidente Traian Băsescu, che con il suo 5% estratto proprio dallo stesso elettorato di Barna, impedirebbe al candidato dell’USR di giungere allo scontro decisivo con Iohannis.
Un sistema difettoso
Bisogna comunque chiedersi quale sia il reale peso del presidente della Repubblica all’interno del sistema politico romeno. La Romania è una repubblica semipresidenziale; la Costituzione promulgata nel 1991 si basa sul modello di quella francese del 1958. Tuttavia, il timore dei romeni appena liberatisi di Ceaușescu verso l’eccessivo accentramento di potere nelle mani di una singola figura ha fatto sì che molti dei poteri che tradizionalmente in Francia sono appannaggio del presidente venissero annacquati. Si è creato un terreno grigio in cui le competenze del primo ministro e quelle del presidente si accavallano, generando contrasti non indifferenti nel caso in cui le due personalità appartengano a diversi schieramenti.
Il presidente conserva un’ampia autonomia nella gestione della politica estera, ma le sue prerogative son ben più limitate nell’indirizzo degli affari interni. Questo spiega lo stallo politico in cui la Romania si è trovata spesso nel corso della sua storia democratica e specialmente negli ultimi anni. Molti hanno invocato una revisione della Costituzione in senso più marcatamente presidenziale, ma per una riforma di tale ampiezza vi è bisogno di un governo sostenuto da una maggioranza forte. La Romania rinnoverà il suo Parlamento tra un anno, e forse quelle elezioni potranno dirci qualcosa in più rispetto a questa triste e silenziosa campagna presidenziale.
(Questo articolo è frutto di una collaborazione editoriale tra OBCT e EastJournal )
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