Quella di Irina Botea, artista rumena trapiantata a Chicago dal 2004, può essere definita come “Social Art”. Un incontro, datato 2010, ma che non ha perso la sua attualità. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Nei libri di storia dell'arte la contemporaneità è contraddistinta da una serie di movimenti artistici ed avanguardie, come l'astrattismo, il dadaismo, il cubismo e via dicendo. Ad essa si aggiungono inoltre correnti più recenti come la land art, la body art, la pop e la video art: un insieme di parole differenti che accompagnano il termine “art”, conferendogli ogni volta una sfumatura differente.
Parlando di Irina Botea, artista rumena trapiantata a Chicago dal 2004, non posso fare a meno di classificare un nuovo modo di fare arte autentica e propositiva, la “Social Art”, o anche "Arte Impegnata", interessata a denunciare i mali della società e a trovare le giuste soluzioni per risolverli.
E' il 17 luglio 2010 il giorno concordato per l'incontro a Bucarest tra me e Irina. L'attendo presso la fontana di Piazza Università; sono le 9,30 del mattino e il clima nella capitale rumena è torrido. Mi riparo all'ombra di qualche albero ed osservo l'ambiente circostante: donne gitane con secchi colmi d'acqua, grossi piccioni che cercano refrigerio dagli zampilli della fontana, pochi infine i cittadini non trasferitisi a godere del fresco del mare o della montagna, siedono stanchi su panchine bevendo Coca Cola, l'icona del capitalismo occidentale nei paesi dell'Est.
Aspetto Irina con la paura che abbia potuto dimenticare il nostro appuntamento. Il mio telefono, ahimè troppo vecchio, non ha campo, mi guardo intorno attenta fino a che il mio sguardo viene rapito da un graffito su un muro, “Bucarest 1989 - Rangoon 2007”, quello che in tanti definirebbero un comune atto vandalico, a mio parere un intelligente intervento di arte pubblica mirato a ricordare le sanguinose notti della rivoluzione rumena del dicembre del 1989, accomunandole con le altrettante sanguinose giornate di rivolta dei monaci buddhisti nella Rangoon del 2007 contro il governo birmano.
Ed ecco improvvisamente arrivare Irina, si muove frettolosa cercandomi tra la gente, fino a che ci scorgiamo e salutiamo come se ci conoscessimo da sempre. Decidiamo di far colazione insieme, così, parlando del più e del meno, ci dirigiamo verso il vicino Lipscani, centro storico della capitale, dando prima un'occhiata al mercatino del sabato mattina, tra oggetti d'antiquariato, salumi e formaggi, stoffe e borse di cuoio. Il nome Lipscani deriva dalla città tedesca Leipzig (Lipsica nel romeno medievale), da cui provenivano molti dei mercanti e delle mercanzie europee.
Per molti secoli Lipscani è rimasto il cuore della vita commerciale di Bucarest, soprattutto per la vicinanza strategica alla Curtea Veche, la sede estiva della corte principesca fatta erigere da Vlad III di Valacchia, conosciuto anche come Vlad l'Impalatore. Rimasto fortunatamente illeso dal “moto Ceaușescu”, questo quartiere, reso pittoresco dalle antiche casette ospitanti locali di ogni sorta nonché centro nevralgico della vita turistica e notturna, è anche indicato come “la piccola Parigi”, nonostante la visibile presenza di edifici in rovina.
Dopo la breve passeggiata ci sediamo in un caffè francese, così come sono straniere la maggior parte delle attività commerciali della capitale, e, mentre assaporiamo la nostra colazione, cominciamo a trattare di temi più specifici legati al contesto socio-politico nazionale.
Irina Botea, docente di Arti Visive, Video e Fotografia presso l'Accademia d'Arte di Chicago, è un'artista che denuncia i drammi sociali trattando temi come la crisi d'identità nazionale, i migliaia di orfani contemporanei, le tensioni razziali tra rumeni e zingari. Tra le sue opere figurano numerosi progetti di stampo socio-antropologico, considerati dall'artista “momenti di riflessione condivisa attraverso l'arte”, ovvero piattaforme di lavoro collettive a cui prendono parte vari personaggi, ognuno con il proprio contributo, per identificare le problematiche che attanagliano la società e favorirne il cambiamento, soprattutto mentale, in vista di un futuro migliore.
“Stereotypical conversation before a national anthem” è un progetto sulla riscrittura dell'inno nazionale risalente al 1898, un vero e proprio momento politico partecipato dove scrittori, filosofi, artisti e abitanti possono discutere, come veri cittadini, dei loro diritti e doveri. Per il progetto vengono creati 6 mini inni, interpretati da un meraviglioso coro sinfonico, quali testimonianze sia dei cambiamenti politici sia dei valori popolari, nel tentativo di recuperare uno spazio pubblico e di questo spazio acquisirne anche i suoni.
L'idea di ricostituire l'inno nazionale mi sembra un atto dal valore altamente civico, ma come già detto Irina si è impegnata anche nel mettere in luce altre tragiche questioni. Una di queste riguarda le comunità gitane, a cui ha dedicato i cortometraggi “Felicia says” e “Reconstituirea”: “Il fenomeno del razzismo tra rumeni e zingari è molto forte. Alcuni di loro vivono in ottime condizioni, lavorano onestamente, suonano essendo musici sin dalla notte dei tempi... altri però, la maggior parte di loro, versano nella povertà più assoluta e nessuno li aiuta, lo stato li disconosce ed aumentando il divario tra ricchi e poveri aumentano anche le conflittualità”.
Le chiedo poi dei bambini di strada e le ragioni per cui Bucarest vanta, a dispetto di altre città dell'Est, un numero così alto di orfani: “Le ragioni sono tante. Nel 1966 il governo emanò una legge per favorire il tasso di natalità, vietando l'aborto. Dietro questa campagna di nazionalismo etnico si nascondeva però una scomoda verità, svelata al crollo del comunismo: migliaia di bambini malati e disabili, trattati come reietti, vennero confinati negli orfanotrofi e nascosti al mondo. A loro si sono aggiunti recentemente tutti quei bambini abbandonati dalle famiglie o abusati, fuggiti a vivere in strada o nelle fogne, fumando colla fin dalla pi tenera età”.
Per loro Irina realizzò, in collaborazione con alcuni orfanotrofi e Miloud Oukili, fondatore dell'associazione Parada, progetti ludici e formativi volti a favorire l'integrazione sociale e a combattere le tossicodipendenze. Il governo attuale ha risposto in altro modo: oggi l'aborto è praticato in clinica e la pillola del giorno dopo venduta senza prescrizione medica.
Proseguendo la conversazione mi chiedo come stia oggi la Romania, da pochi anni in Europa eppure così maltrattata, e soprattutto come vivono i suoi abitanti. “La rivoluzione non ha fatto abbastanza” afferma, scuotendo il capo. “La società è oggi rassegnata, prima di tutto perché non è rappresentata. Questo significa che non ha potere decisionale, non può scegliere e come conseguenza ad essere carenti sono l'ottimismo e la speranza.”
E seguita: “Le elezioni presidenziali del 1990 sono state elezioni fantoccio. Vinse Iliescu, nuovo paladino della democrazia. In realtà si trattò del riaffermarsi dei vecchi comunisti al governo. Ciò generò una serie di proteste, soprattutto negli studenti. Ci fu in quell'anno l'occupazione del quartiere universitario...”.
Per meglio comprendere questo evento bisogna però tornare un attimo indietro alla rivoluzione rumena. In seguito alla caduta del dittatore rumeno, nel 1990 venne istituito il FNS (Fronte di Salvezza Nazionale), il quale si servì della televisione, principale media in uso, per mostrare il proprio ruolo di guida politica in una nazione in transizione.
Il FNS era capeggiato da Ion Iliescu, alto ufficiale del precedente Partito comunista, a dimostrazione della permanenza del comunismo nelle strutture di potere e auto-incaricatosi di governare il nuovo paese. Intanto, nel marzo dello stesso anno alcune tensioni etniche scoppiarono a Târgu Mureș, nel bel mezzo della Transilvania, regione in cui gli ungheresi formavano la maggioranza della popolazione. Il modo in cui Iliescu gestì l'accaduto, ovvero soffocando i disordini con la violenza, fece immediatamente sorgere dubbi e sospetti circa i suoi reali valori democratici.
Contro Iliescu un gruppo di studenti, riunitosi a Timisoara l'11 marzo del 1990, città con alto valore simbolico poiché in essa scoppiò il moto rivoluzionario quattro mesi prima, indisse una riunione per creare insieme la cosiddetta “Carta di Timisoara”, una manifesta dichiarazione di rifiuto del leader in carica. Il documento esordiva così: “A Timisoara, in nome della rivoluzione, in cui combatterono e morirono rumeni, ungheresi, tedeschi, serbi e membri di altri gruppi etnici che per secoli vissero pacificamente nella nostra città...” e ancora “la rivoluzione fu sin dall'inizio contro il leader Ceaușescu ma nel complesso fu categoricamente anti-comunista”. Furono queste le circostanze che diedero vita al fenomeno universitario.
Il 22 aprile 1990 il Partito Popolare anticomunista, da poco formatosi, organizzò un incontro “con l'intento di dissuadere Iliescu ed altri ex comunisti dal candidarsi alle elezioni del maggio seguente”. Ma ciò non accadde e da quel momento la manifestazione si perpetuò nei giorni a seguire fino a diventare un movimento di massa a cui venne stimata la partecipazione di circa 300.000 tra studenti e intellettuali nella sola Bucarest.
Mentre lo slogan adottato per le proteste dell'89 era “Via i Comunisti”, nell'aprile 1990 diventò “Via i neo-comunisti”, al punto che l'evento venne considerato una continuazione della rivoluzione rumena. Il neo-presidente rumeno appellò i dimostranti golani, ovvero teppisti, così che, come provocazione, questi risposero denominando il perimetro cittadino occupato Golania. Golania si dichiarò anche “Zona libera dal neo-comunismo, il chilometro-zero fatto di libertà e democrazia”, e come fa notare Irina “Si creò una vera e propria comunità pacifica e multiculturale che davvero credeva nella democrazia. Si cantava, si scrivevano poesie, c'era anche chi si improvvisò ambulante, cominciando a vendere snacks.” Per l'occasione venne anche fondato un nuovo inno nazionale, l'inno dei golani: “Meglio vandali che traditori, meglio golani che dittatori, meglio hooligan che attivisti, meglio morti che comunisti!”.
Nonostante le proteste, le elezioni del maggio portarono alla vittoria Ion Iliescu con una percentuale dell'85%. In seguito a questa catastrofica sconfitta, molti manifestanti abbandonarono la piazza, altri invece continuarono la loro rivolta. Ormai presidente legittimato dal popolo, Iliescu decise di reprimere una volta per tutte le dimostrazioni chiamando in soccorso migliaia di minatori “...armati di martelli e mazze, alcuni visibilmente intossicati, che si abbatterono su protestanti e passanti innocenti”, dopo averli organizzati come un esercito. “Il tutto iniziò con il pretesto di una macchina bruciata. Iliescu apparve in tv parlando alla nazione dell'instabilità sociale provocata dagli studenti.
Aveva in mano la tv nazionale, proprio come il vecchio leader. Così non ci volle tanto; tutti gli studenti vennero pubblicamente additati come responsabili dei disordini e, a giugno, quando arrivarono i minatori, chiunque avesse le fattezze di uno studente, barba lunga e jeans, venne picchiato indiscriminatamente. Oggi Iliescu ha perso l'immunità politica ed è tuttora indagato nella causa della marcia dei minatori”.
Così conclude Irina Botea i racconti del fenomeno universitario avuto luogo undici anni fa. Al termine della nostra conversazione decidiamo insieme di visitare la BB4, quarta edizione della Biennale di Bucarest, una vera novità per l'artista da anni trasferitasi negli States e per questo ignara dei nuovi eventi della capitale. Così prendiamo un taxi e ci dirigiamo verso il Pavilion Unicredit, una delle sedi della mostra itinerante, per commentare insieme le opere prima di darci un sentito arrivederci.
L'atto di aver vissuto insieme l'esperienza della BB4 calza a pennello con lo stile di Irina: lei, artista e donna, è davvero un animale politico, sempre alla ricerca di momenti formativi condivisi, di partecipazione sociale, contro la natura meramente individualistica del “bellium omnium contra omnes”. A presto Irina!
Sito dell'artista: www.irinabotea.com
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