Fallito in Romania, per mancato raggiungimento del quorum, un referendum voluto per vincolare costituzionalmente il matrimonio esclusivamente come unione tra un uomo e una donna
Non ha raggiunto il quorum in Romania il referendum che proponeva la modifica della costituzione romena in modo da definire il matrimonio come l’unione tra un uomo e una donna e non come l’unione tra i coniugi come lo definisce ora.
Il referendum “anti matrimonio gay”, come è stato soprannominato, ha convinto solo il 21% dei votanti (poco più di tre milioni e mezzo degli elettori) a presentarsi al voto, insufficienti rispetto ad un minimo del 30% necessario per raggiungere il quorum e affinché la modifica costituzionale approvata dal parlamento venisse validata.
Ora è il momento di trarre un bilancio e dato che nessuno vuole assumersi la responsabilità del fiasco si è alla ricerca di un capro espiatorio.
Boicottaggio
Per i promotori del referendum, la Coalizione per la Famiglia, si è trattato di un boicottaggio da parte dei partiti ed in particolare da parte del Partito Socialdemocratico che governa il paese, che avrebbe mal organizzato questa consultazione elettorale. La Coalizione accusa anche gli altri partiti di aver disinformato sul referendum facendo passare il messaggio che fosse un referendum voluto dai Socialdemocratici e in particolare dal suo leader, Liviu Dragnea, per guadagnare capitale politico in vista delle modifiche legislative in atto che molti interpretano come un tentativo dello stesso Dragnea di evitare i suoi guai con la giustizia. Per questo, secondo la Coalizione, molti elettori avrebbero visto nel referendum una sorta di trappola, che avrebbe portato beneficio a Dragnea.
Ad esplicitare il loro “si” per la riforma della costituzione in chiave tradizionalista sono stati proprio il Partito social-democratico (che per questo hanno raccolto accese critiche dai colleghi della famiglia socialista europea) e i popolari, mentre altri partiti, pur votando in Parlamento a favore, hanno poi lasciato ai propri elettori libertà di scelta.
Anche la Chiesa ortodossa (86% della popolazione e di fede ortodossa) si è spesa molto a favore del referendum, ma evidentemente i fedeli non hanno sentito il bisogno di votare per la famiglia tradizionale. Per la Chiesa il risultato è stato un duro colpo. In un proprio comunicato post-referendum la Chiesa ortodossa romena (Bor) ha invitato all’unità spirituale e alla difesa della famiglia tradizionale. Vi si afferma inoltre che l’atteggiamento dei romeni, a prescindere dalla partecipazione o del modo in cui hanno votato, “dev’essere rispettato e analizzato”. La Chiesa ortodossa inoltre ha sottolineato che il referendum “ha offerto la possibilità di conoscere il grado di secolarizzazione della società romena”. Anche la Chiesa cattolica romena, dal canto suo, ha tenuto a ribadire che alla base della famiglia si trova il matrimonio tra un uomo e una donna.
Reazioni politiche
Mentre i rappresentanti delle minoranze sessuali festeggiano, l’Unione Salvate la Romania (l’USR, fin dall’inizio contraria all’iniziativa, anche durante il voto in parlamento) ha richiesto ora le dimissioni del governo che accusa di aver speso inutilmente, per il referendum, oltre 35 milioni di euro. Il presidente dell’USR, Dan Barna, ha dichiarato che la Romania è una nazione europea, tollerante e moderna che si è rifiutata di fare passi indietro.
Per il fondatore del Movimento Romania Insieme, Dacian Cioloș, ex primo ministro tecnico, la Romania ha offerto nei due giorni del referendum una lezione di democrazia all’indirizzo dell’attuale classe politica. Cioloș ha inoltre espresso la sua speranza affinché la società romena, troppo divisa, superi al più presto “questo momento di inutile tensione”.
Călin Popescu Tăriceanu, presidente dei Liberal-democratici (Alde, al governo con il Psd) ha ammesso che il risultato referendario dimostra una probabile “mancanza di interesse della maggior parte dei votanti“.
Dal suo canto il presidente dei liberali (Pnl), Ludovic Orban, ritiene che il principale motivo per cui la gente non si è recata a votare è dovuto al fatto che il leader del Psd, Liviu Dragnea, ha nei fatti “confiscato” il referendum.
Il Psd, invece, non si assume nessuna responsabilità relativamente al fallimento. A parlare non è stato Dragnea ma il segretario generale del partito, Codrin Ștefănescu, secondo il quale il fallimento del referendum è un fallimento dei romeni e della Romania.
Per molti di quelli che non sono andati a votare l'esito referendario rappresenta, invece, una vittoria della Romania europea e un colpo duro per la Chiesa e il Partito socialdemocratico.
Intanto il ministro con la delega per gli Affari europei, Victor Negrescu ha annunciato che la prossima settimana parlamentari da tutto lo spettro politico porteranno in parlamento un disegno di legge che riguarda la regolazione delle unioni civili.
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