Erano stati condannati a 15 anni per la repressione durante i moti di protesta a Timisoara del 1989. Ora l'Alta Corte di Cassazione annulla la sentenza. Per il quotidiano "Evenimentul Zilei" una protezione nei confronti del "braccio armato del sistema".
Di Flavia Mosca Goretta
Alla fine di marzo l'Alta Corte di Cassazione e Giustizia rumena si è pronunciata a favore dell'annullamento di una sentenza che condannava a 15 anni di reclusione i generali Victor Athanasie Stanculescu e Mihai Chitac. I due militari erano stati riconosciuti come i responsabili della violenta repressione dei moti scoppiati tra il 16 e il 22 dicembre 1989 nella città di Timisoara, repressione che causò decine di vittime (tra cui tredici bambini), principalmente ad opera degli agenti della Securitate, la famigerata polizia segreta del dittatore Ceausescu. A seguito di tale decisione, i parenti delle vittime di Timosoara hanno annunciato l'intenzione di rivolgersi alla Corte europea per i Diritti umani di Strasburgo, se il nuovo processo non farà chiarezza sulle effettive responsabilità del massacro.
Secondo il giornale rumeno "Evenimentul Zilei", sembra difficile che i magistrati abbiano preso la decisione di riaprire il caso di propria spontanea volontà. E' facile, ha scritto il giornale il 23 marzo scorso, immaginare quale sia il succo della questione: il "braccio armato del sistema", non importa quanto polveroso e paralizzato sia, non può essere lasciato senza protezione.
A 14 anni dalla fine della dittatura di Ceausescu, la Romania sembra avere ancora forti difficoltà a lasciarsi alle spalle i fantasmi del regime. una delle principali cause può essere ricercata nel mancato ricambio della classe politica all'indomani della caduta del "Conducador": al contrario di altri paesi, infatti, le prime elezioni democratiche videro una schiacciante vittoria del Fronte di Salvezza Nazionale e del suo leader Ion Iliescu, ex personalità di spicco del Partito comunista e attuale Presidente della Repubblica rumena, che ottenne circa l'80% dei suffragi. Stesso dicasi per chi auspicava l'evoluzione del paese verso un modello democratico di stampo occidentale: la discesa dei minatori a Bucarest alla fine degli anni '90, causata dalla chiusura degli obsoleti impianti dell'era comunista, e le violenze da loro attuate contro studenti, intellettuali ed oppositori politici, avvenute con il tacito consenso delle autorità, riportarono ad un clima di stampo autoritario e centralista proprio del passato regime comunista (cfr. Pirzio-Ammassari, D'Amato, Montanari "Nazionalismo ed identità collettive. I percorsi della transizione in Romania e nella Repubblica di Moldova").
Oltre ai fattori eminentemente politici, anche il fattore psicologico gioca un ruolo importante: per tutta una gamma di categorie professionali, per lo più ex contadini inurbati poi diventati operai, funzionari, quadri di partito, insegnanti...la cui esistenza è stata fortemente influenzata dal partito comunista, la transizione verso la democrazia è stata vissuta come qualcosa di estraneo, nella convinzione che il vecchio sistema, seppure imperfetto, abbia garantito per cinquant'anni uno status adeguato ed una condizione economica accettabile.
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