Bulgaria e Romania restano fuori da Schengen a tempo indeterminato. Alla base dell'esclusione, problemi irrisolti nei due Paesi, ma soprattutto la crescente fragilità di una strategia comune europea
Il prossimo 4 giugno, con tutta probabilità, il parlamento europeo voterà una mozione che invita Romania e Bulgaria ad entrare nell'area Schengen. L'invito di Bruxelles però, almeno per il momento, è destinato a restare lettera morta.
La decisione finale, infatti, viene presa all'unanimità dai governi degli Stati membri dell'area Schengen, oggi niente affatto unanimi sulla questione. Visto che a guidare il fronte del “no” sono due pesi massimi come Francia e Germania, per ora le speranze di una rapida inclusione per Bucarest e Sofia sembrano ridotte al lumicino.
Il 12 aprile il rapporteur dell'europarlamento (il portoghese Carlos Coelho) ha presentato le sue valutazioni finali sullo stato di preparazione tecnica dei due Stati. Secondo Coelho “nonostante ci siano alcune questioni che necessitano ulteriore monitoraggio, non ci sono ostacoli per il pieno accesso [in Schengen] di Romania e Bulgaria”.
Non solo. La Bulgaria, il Paese che fino ad oggi aveva incontrato più difficoltà, soprattutto nel dimostrare la propria capacità di controllare il confine di terra con la Turchia, “copre oggi i criteri tecnici necessari meglio di alcuni Stati già membri di Schengen”.
Nonostante il rapporto positivo l'ingresso di Bulgaria e Romania, che secondo i piani sarebbe dovuto avvenire lo scorso marzo, è rinviato però a data da destinarsi. Insieme ad innegabili difficoltà e problemi irrisolti nei Paesi sotto esame, il cuore del problema sembra essere altrove, nella crescente fragilità di una strategia europea credibile
Carota senza bastone
Superata la questione tecnica, il problema, come sottolineato dall'attuale presidenza di turno dell'UE (Ungheria), che aveva messo l'ingresso dei due Paesi balcanici in Schengen tra le sue priorità, è sostanzialmente politica.
Bucarest e Sofia pagano oggi l'evidente e sostanziale mancanza di fiducia da parte di numerosi stati dell'UE (Francia e Germania in primis). Nel dicembre 2010, con una lettera congiunta a Cecilia Malmström, commissario UE per gli affari interni, i ministri degli Esteri dei due Paesi avevano definito l'eventuale ingresso di Romania e Bulgaria come “prematuro”, a causa della mancanza di “progressi irreversibili” nella lotta a corruzione e crimine organizzato.
Il messaggio che arriva da Parigi e Berlino è chiaro: non possiamo cedere una parte importante della sovranità, come il controllo delle frontiere, a Stati percepiti come endemicamente segnati da criminalità e corruzione. Tanto più che Schengen non significa soltanto sbarazzarsi delle barriere al confine, ma condividere enormi database di dati sensibili in tema di sicurezza.
Legare però l'ingresso in Schengen alla lotta a questi fenomeni è perlomeno discutibile. La valutazione dei progressi tecnici si basa su elementi in gran parte oggettivi. Ma come stabilire un livello sufficiente di “efficacia nella lotta a crimine e corruzione” per poter abbattere le frontiere?
La questione è profondamente legata ad un problema strutturale dell'UE: Bruxelles sembra in grado di stimolare riforme e cambiamenti solo con la carota dell'integrazione. Una volta entrati nel club, però, non esistono meccanismi di sanzione efficaci.
Dopo aver approvato il loro ingresso nell'Unione, ora molti Stati sono tentati di utilizzare lo stop all'ammissione di Bulgaria e Romania in Schengen come opzione di riserva per forzare le élite dei due Paesi al cambiamento.
Una visione, tra l'altro, condivisa da non pochi cittadini bulgari e romeni, disillusi e stanchi di aspettare uno stato di diritto funzionante, ma che si pongono anche forti domande sull'opportunità, ma anche sulla presunta efficacia di questa “opzione B”.
Di certo il veto posto da Francia e Germania è stato mal digerito dalle élite politiche di Romania e Bulgaria, che accusano i “grandi” dell'Unione di perseguire una politica dei due pesi e delle due misure.
La débâcle rischia di avere serie ricadute politiche soprattutto sul premier bulgaro Boyko Borisov, che nei mesi passati ha presentato all'opinione pubblica l'ingresso in Schengen come prova del nove del successo della crociata governativa contro mafia e corruzione.
Schengen, addio...
L'ingresso di Bulgaria e Romania è però solo un capitolo, e nemmeno il più scottante, nella rissa scatenata oggi a livello comunitario su Schengen, insieme all'euro uno dei pilastri del progetto di integrazione continentale.
Il diritto al libero movimento è oggi messo sotto crescente pressione dal clima di paura verso l'immigrazione, che gonfia le vele ai partiti della destra populista, che fanno dell'interesse nazionale (vero o presunto) il faro delle proprie rivendicazioni (ultimo caso, il successo dei “Veri finlandesi” alle recenti politiche tenute nel Paese scandinavo).
La diatriba tra Italia e Francia, scatenata nelle scorse settimane dall'arrivo di circa 25mila migranti tunisini, è sfociata in una richiesta congiunta di revisione complessiva del patto, iniziata da Berlusconi e Sarkozy, ma che ha trovato sponda in numerosi Paesi UE.
Oggi “fare fronte” contro “gli altri”, siano questi profughi, immigrati extracomunitari o cittadini di altri paesi dell'UE, paga politicamente. E tutti, o quasi, si adeguano.
Particolarmente attivo in questo senso è proprio il presidente francese Sarkozy, che a un anno dalle prossime presidenziali e in piena crisi di popolarità, è costretto a rincorrere il Fronte Nazionale di Marine Le Pen (che chiede l'uscita di Parigi non solo da Schengen, ma anche dall'euro) sul suo terreno. Nell'estate del 2010, il presidente francese aveva fatto discutere per una campagna di espulsioni verso rom provenienti proprio da Romania e Bulgaria.
Ma Sarkozy non è certo un caso isolato. Le paure e la voglia di muri sono una malattia generalizzata, che attraversa tutto il Vecchio continente. Per Romania e Bulgaria il problema è che, pur facendo a pieno titolo parte dell'Unione, spesso e volentieri non vengono considerate tali dagli altri partner dell'UE.
Ultimo caso, la proposta del ministro olandese degli Affari Sociali Henk Kamp, che ha chiesto che dal prossimo primo luglio i lavoratori romeni e bulgari, così come quelli extracomunitari, possano ricevere permessi di lavoro “solo in casi eccezionali”.
Passaggio di testimone?
Nonostante le nuvole che si addensano, pensare che Schengen possa essere messo sostanzialmente in discussione è prematuro. Se si accantonano per un attimo le lotte politiche e la retorica da barricata, i vantaggi dell'abbattimento delle barriere tra i Paesi europei sono evidenti a tutti i soggetti coinvolti.
Anche se la Commissione europea ha in parte accolto gli stimoli provenienti dall'asse Berlusconi-Sarkozy e il prossimo 4 maggio dovrebbe presentare una lista di “situazioni eccezionali” in cui controlli di confine possono essere reintrodotti, difficilmente le fondamenta di Schengen verranno messe in dubbio, almeno nel breve periodo.
Di certo, però, i segni di fatica del condividere la casa europea diventano sempre più frequenti. E il rischio di una fuga verso lo scontro di interessi divergenti resta nell'aria.
In questo contesto, fa pensare una notizia proveniente dal nostro estero più vicino. La Turchia, che sta emergendo sempre di più come soggetto protagonista dell'attuale panorama internazionale, e che l'Unione Europea ha deciso di tenere in sala d'attesa a tempo indeterminato, sta pensando concretamente a creare “un'area di libero movimento” che dovrebbe unire il Paese a Iran, Iraq e Siria.
Il progetto, recentemente presentato dal premier turco Erdoğan, è stato battezzato “Shamgen” (combinazione del nome arabo-turco di Damasco, “Sham” e di “Schengen”. “Bisogna abbattere le frontiere tra Turchia e Medio oriente”, ha dichiarato Erdoğan, “perché queste sono artificiali”.
Abbattere frontiere, quindi, non è solo un sogno europeo. Ma l'Europa, che per prima l'ha reso reale, rischia di passare il testimone ideale a chi ha più energie e coraggio per tenerlo vivo.
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