Un teatro impegnato, che intende non solo generare dibattito sui temi affrontati ma anche coinvolgere i suoi protagonisti nel processo creativo. Un'intervista a David Schwartz
(Pubblicato originariamente su Altrevelocità)
David Schwartz è uno dei promotori del progetto Platforma de teatru politic, che si propone di fare teatro da una prospettiva dichiaratamente politica e dichiaratamente “di sinistra” attraverso spettacoli che analizzano temi ed episodi generalmente marginalizzati dal discorso pubblico rumeno, come quelli relativi alla situazione e alla storia delle “minoranze” (comunità LGBT, donne, minatori, migranti...).
Si tratta di un approccio impegnato, che intende non solo generare dibattiti (ogni performance è seguita da una discussione aperta) sulle problematiche di volta di volta evidenziate ma anche coinvolgere i loro protagonisti nel processo creativo, avviando operazioni di ricerca storica e raccolta di testimonianze sul campo. Sotto il cappello del progetto otto spettacoli sono già stati presentati o sono in lavorazione, ciascuno di essi riguardante una specifica e controversa tematica della storia rumena più o meno recente. Dopo una prima domanda generale, abbiamo tentato di estrapolare una domanda per ogni performance da porre a David Schwartz, nella speranza di fornire spunti di risposta alla questione più generale “che cosa dovrebbe essere oggi un teatro politico”?
Come si inserisce il vostro lavoro nel contesto rumeno? Qual è il vostro rapporto con il testo e come concepite il lavoro d'attore?
Tradizionalmente, il teatro rumeno è stato caratterizzato da un uso massiccio del corpo e dalla presenza quasi esclusiva di spettacoli basati sul movimento. Tuttavia l'attore era difficilmente trattato come un performer o come un corpo pensante. Al contrario, era nella maggior parte dei casi un burattino nelle mani del regista. Direi che le nuove generazioni hanno sviluppato una sorta di “allergia” a questo tipo di teatro e si sono concentrate molto di più sul testo.
Noi stessi siamo principalmente focalizzati sul processo di scrittura, anche se credo che qualcosa di quella tradizione vada recuperato in quanto le azioni e i gesti dei corpi possono veicolare un forte messaggio politico. Ma c'è un altro elemento che spinge la scena rumena a occuparsi della scrittura: la mancanza di testi originali autoctoni e la generale marginalizzazione dei drammaturghi locali, specialmente di chi si occupa di problemi sociali e politici contemporanei. È per questo che durante gli ultimi anni gli sforzi sono andanti verso il tentativo di creare una “nuova tradizione” che sia radicata nel contesto locale. Il collettivo DramAcum è stato certamente fra i primi a iniziare tale processo di recupero della drammaturgia attorno ai primi dei 2000. Se vuoi raccontare le storie e le lotte relative alla tua città e al tuo paese è difficile farlo attraverso testi che arrivano dall'ovest europeo.
Born in the wrong place (Nati nel posto sbagliato) (2013)
scritto e diretto da Alice Monica Marinescu e David Schwartz
La performance Born in the wrong place intreccia il racconto delle esperienze di cinque richiedenti asilo con frammenti estrapolati dalla Guida per ottenere la cittadinanza rumena per cittadini stranieri. Attraverso tale meccanismo si intende problematizzare e discutere questioni di cruciale importanza nel contesto globale contemporaneo, quali le politiche di contrasto dei flussi migratori attualmente messe in pratica nella loro contraddizione col bisogno di forza lavoro esterna necessaria allo sviluppo dell'economia capitalista, la richiesta di asilo, il diritto alla mobilità come diritto fondamentale degli individui e la strumentalizzazione dello “straniero” come capro espiatorio di questioni sociali ed economiche.
Il teatro può giocare un ruolo importante nel rafforzare il senso di comunità? Se sì, quale?
Certamente la pratica teatrale può contribuire nella costruzione di un senso forte di comunità, ma sono scettico sul fatto che questo possa avvenire automaticamente in ogni occasione. Nel caso di questa performance, ci eravamo prefissati due obiettivi principali. Innanzitutto, volevamo rafforzare e aiutare la comunità dei rifugiati, non solo attraverso lo spettacolo e le relative discussioni ma anche tramite l'istituzione di uno sportello di consulenza legale e pratica per le loro richieste d'asilo. Inoltre era nostra intenzione contrastare la propaganda di stampo razzista generalmente perpetrata dai media, costruendo e promuovendo una prospettiva diversa che mettesse in luce cosa significhi essere un migrante nell'attuale contesto rumeno e a quali battaglie si va incontro.
Soprattutto su questo secondo punto eravamo non del tutto soddisfatti dei risultati ottenuti: la retorica xenofobica e anti-islamica è cresciuta sempre di più con la recente crisi migratoria e sta avendo un impatto enorme sulla società (si sono recentemente verificati diversi casi di attacchi contro immigrati di matrice razzista). Ci siamo dunque resi conto che era necessario integrare l'approccio artistico con uno più direttamente politico, vale a dire partecipare a manifestazioni e proteste in favore dei diritti dei migranti, produrre una vera e propria documentazione giornalistica sugli abusi da parte delle autorità etc. Oltre alle performance, dovevamo implicarci anche su altri livelli.
Heated minds (Teste calde) (2010)
scritto da Mihaela Michailov, diretto da David Schwartz
La performance Heated minds intende recuperare un pezzo di storia vissuta dalle prospettive degli attori sociali coinvolti negli eventi e “riattivarlo” all'interno della coscienza pubblica. La verità di tali eventi è rappresentata dalla somma di una molteplicità di punti di vista contraddittori, che rende dunque impossibile ridurla a una prospettiva unica. Lo spettacolo si focalizza sugli eventi accaduti a Bucarest dal 13 al 15 giugno 1990 ed è il risultato di un processo di documentazione operato basato su più metodi: interviste con i testimoni, resoconti giornalistici, report di differenti istituzioni e organizzazioni, discussioni, dibattiti pubblici, laboratori etc.
C'è spazio in teatro per qualcosa che può essere definito “verità”?
Ovviamente non esiste niente che possa ambire al titolo di “verità oggettiva”. Quello che abbiamo tentato di realizzare con questo lavoro è stata piuttosto un'operazione di “contro-propaganda” che fornisse più sfumature ed elementi di quanti ne offre generalmente la cosiddetta propaganda ufficiale. Abbiamo tentato cioè di abbozzare un'inedita cornice interpretativa con la quale leggere gli eventi storici, che non ambisce a essere oggettiva ma soggettivamente politica. Direi che è una cornice “critica” che intende offrire una miriade di prospettive soggettive differenti fra loro ma allo stesso tempo anche una chiave di lettura che permetta di orientarsi all'interno di tale molteplicità, nonché di interpretare in maniera più efficace la realtà e gli accadimenti storici.
È in virtù di tale chiave di lettura che scegliamo di raccontare alcuni episodi piuttosto che altri: ogni processo di narrazione della storia è fazioso, tutto dipende dalla cornice interpretativa di partenza. E, vorrei sottolineare, questo non era per niente ovvio quando abbiamo iniziato a lavorare allo spettacolo: Heated Minds è uno dei nostri primi progetti relativi alla storia rumena e l'intento principale che lo animava era semplicemente la volontà di fornire una versione dei fatti alternativa a quella ufficiale. In qualche modo, dunque, abbiamo sì cercato di raggiungere una verità (più) oggettiva. Solo durante il processo di documentazione ci siamo accorti che avevamo bisogno di una prospettiva differente non solo sui fatti analizzati ma anche su noi stessi e sul nostro metodo di ricerca. Per questo, abbiamo tentato di superare i comuni cliché e prendere come obiettivo il raggiungimento di una “complessità” storica attraverso molteplici prospettive invece di una supposta oggettività della stessa.
Underground. Jiu Valley after 1989 (Sottoterra. La Jiu Valley dopo il 1989) (2012)
scritto da Mihaela Michailov, diretto da David Schwartz
Underground. The Jiu Valley after 1989 è uno spettacolo che intende documentare la situazione dei minatori nell'epoca post-socialista a livello economico, lavorativo e di vita quotidiana. Il progetto porta sul palco una ricostruzione di racconti ed eventi che costituiscono la storia delle comunità dei minatori della Jiu Valley, che si trovano ancora perennemente in bilico fra sopravvivenza, emigrazione, scomparsa e ripresa. L'obiettivo è quello di rivalutare la cultura e le istanze di una delle categorie sociali spesso ignorata dal teatro rumeno dell'era post-socialista: la classe operaia.
Il teatro è una pratica intrinsecamente “borghese” oppure è possibile fare un teatro genuinamente popolare, un teatro per le masse?
Un teatro popolare può certamente esistere e, dal mio punto di vista, la sua possibilità dipende largamente dall'argomento che si sceglie per la propria performance. È ovvio che alcune tematiche interessano una fetta più ampia di persone rispetto ad altre, ma questo non è tutto. Ciò che secondo me è necessario è rompere con gli stereotipi cui veniamo sempre più abituati dai prodotti televisivi e dall'industria dell'intrattenimento. È importante dunque andare più in là per intercettare i reali bisogni e le reali lotte delle persone. Non è un processo facile, anche perché implica un lavoro su se stessi. Occorre infatti riuscire ad avvicinarsi personalmente, con le proprie emozioni, alle persone cui ci si intende rivolgere con la propria performance: significa provare a coinvolgerle nel processo artistico, discutere con loro e prestare attenzione massima alle loro reazioni successivamente allo spettacolo.
Anche quando lavoriamo con attori professionisti, costruiamo delle “performance-conferenze” propedeutiche, in cui chiediamo a chi è “oggetto” dello spettacolo di dare un giudizio su come i protagonisti e le vicende vengono rappresentati. Ciò ti consente di capire quanto la direzione in cui stai andando sia fruttuosa o meno e ti rende maggiormente consapevole rispetto all'identità del tuo pubblico e delle battaglie che esso sta combattendo. La scommessa è che agendo su una molteplicità di piani allo stesso tempo, grazie all'intenso scambio di idee che questo comporta, si creino e si sviluppino solidarietà inaspettate: se mostri uno spettacolo sui minatori della Jiu Valley a una comunità di persone che stanno subendo uno sfratto, difficilmente otterrai attenzione o interesse. Se invece fai lo stesso dopo aver intessuto relazioni basate sul teatro, magari con una collaborazione di lungo termine, ecco che si creerà empatia poiché attraverso il processo artistico rendi evidente come i loro problemi e bisogni siano collegati in quanto causati dallo stesso sistema politico generale.
After Trajan and Decebalus (Dopo Traiano e Decebalo) (2013)
di e con Paul Dunca e Mihaela Michailov
Com'era possibile condurre uno stile di vita “omosessuale” in Romania prima del 1989? Come funzionava il sistema repressivo e quali rituali di socializzazione venivano messi in pratica? Quali sono state le conseguenze dell'articolo 200, che prevedeva la punizione degli intercorsi sessuali fra persone dello stesso sesso con un periodo in prigione da 1 a 5 anni? Come sono proseguiti gli attacchi alla libertà di autodeterminazione individuale dopo il 1989? After Trajan and Decebalus è un frammento della storia invisibile della comunità omosessuale rumena prima e dopo il periodo socialista. I paradossi della propaganda hanno funzionato alla perfezione. Nonostante fosse ufficialmente proibita, è sempre esistita una “vita gay” in Romania.
Qual è la relazione fra teatro e identità? Pensi il teatro rafforzi le identità personali e collettive o piuttosto è un mezzo che le pone costantemente in crisi?
Direi che possono verificarsi tutt'e due i casi, dipende verso chi ti stai rivolgendo. In particolar modo con questa performance, era di enorme importanza che i membri della comunità LGBT presenti fra il pubblico si sentissero in connessione profonda con quanto accadeva sul palco. Allo stesso tempo, altri spettatori che al contrario non sono per nulla al corrente delle tematiche trattate o che le conoscono attraverso prospettive differenti da quelle che utilizziamo possono rimanere scioccati o quantomeno sorpresi da ciò a cui assistono. Per questi ultimi dunque l'attività scenica gioca senza dubbio un ruolo dirompente per quello che riguarda il modo di concepire l'identità, la storia e via discorrendo.
Pertanto io direi che il teatro ha sia un potere “traumatizzante” che uno “curativo”. Ancora, dipende tutto da chi sta guardando e dal grado di coinvolgimento rispetto a ciò che avviene in scena. Gli stesso concetti di “dirompente” e “provocatorio” sono concetti relativi: anche sotto l'aspetto formale ed estetico, un elemento dello spettacolo può essere sperimentale e innovativo per alcune persone, probabilmente quelle maggiormente abituate ad andare a teatro, mentre per altre che provengono da contesti sociali e culturali diversi può rivelarsi completamente incomprensibile.
Una conseguenza possibile di tutto ciò è il fallimento nel creare un linguaggio condiviso con il proprio pubblico. Perciò nel momento in cui si cerca di essere provocatori è cruciale tenere sempre a mente il contesto generale in cui si opera e il tipo di spettatore a cui ci si vuole rivolgere. Chi voglio turbare? E chi invece intendo supportare? In conclusione si tratta ancora una volta di una questione di classe.
Closer than close (Più prossimo della vicinanza) (2014)
collettivo artistico: Paul Dunca, Pompiliu Sterian, Renee Necleevici, Iudith Ardeleanu, Carmen Coțofană, David Schwartz, Dorotea Weissbuch, Eva Szemler, Alice Monica Marinescu, Marius Armașu, Mihaela Bîrlegi, Margareta Eschenazy, Rodica Dumitrache, Cristina Focșa, Ilie Zan, Cătălin Rulea, Ani One, Gabriela Anghel, Mihaela Michailov, Steliana Anghel, Katia Pascariu
Closer than close è una performance con non-attori in cui alcuni membri della casa di riposo Moses Rosen, facenti parte sia dei residenti che del personale, salgono sul palco per raccontare la loro vita quotidiana insieme, ricreando i piccoli rituali, le danze e le reminiscenze che la compongono. Si tratta di esplorare la forza e la debolezza delle loro relazioni, di capire cosa li tiene insieme e cosa imparano costantemente l'uno dall'altro. Closer than close descrive la vita di tutti i giorni in una casa di riposo.
Qual è il rapporto fra teatro e rito? Sono due facce della stessa medaglia?
Queste due performance sono il risultato di una relazione che dura ormai da 6 anni con i membri residenti della casa di riposo Moses Rosen di Bucarest. Durante un lasso di tempo così lungo è evidente che tale relazione si è evoluta in un rapporto personale di amicizia così come l'aspetto artistico è diventato via via più prossimo a una sorta di rituale sociale. Abbiamo iniziato con l'intento di mettere in scena uno spettacolo alla casa di riposo ma siamo finiti a frequentare il posto ogni settimana, anche solo per leggere e discutere insieme un articolo, per guardare un film o per celebrare il compleanno di qualcuno. Mi viene da dire dunque che quanto più si sviluppa e si definisce il processo di creare un senso di comunità attraverso il teatro tanto più l'attività scenica tende ad assumere forme molteplici e diverse, a volte sorprendentemente semplici e “quotidiane”. Ed è proprio tale fenomeno che abbiamo cercato di mostrare con le performance pubbliche, vale a dire il percorso di creazione di una comunità di persone molto differenti fra loro e come questo percorso arricchisca sia gli artisti che i non artisti che ne fanno parte. È un modo per mettere in contatto generazioni distanti, in cui si scopre di avere molte più cose in comune di quanto si pensi, spesso (almeno è quello che è capitato a me) più che con la generazione dei nostri padri.
What if we knew? A history of protests (E se sapessimo? Una storia di proteste) (2015)
collettivo artistico: Mădălina Brândușe, Paul Dunca, Adela Iacoban, Mihaela Michailov, Alice Monica Marinescu, Katia Pascariu, Alex Potocean, Cătălin Rulea, David Schwartz, Ionuț Sociu, Andrei Șerban, Marius Bogdan Tudor
La performance è una ricerca sui movimenti di protesta attivi in Romania dopo il 1918 che si basa su un'ampia documentazione relativa a gesti di dissenso personale e collettivo raramente analizzati né dal punto di vista storico, politico o artistico: gli scioperi e le proteste operai del 1918-1920; il ruolo delle donne e la loro attività all'interno dell'allora illegale movimento Comunista; le proteste operaie degli anni '70; le resistenze sindacali alle privatizzazioni criminali degli anni '90.
Un teatro di pura opposizione al potere è ancora possibile? Quale può essere, oggi, una potenziale strategia da seguire per un teatro che voglia dirsi politico?
Innanzitutto è utile rilevare che le strategie variano da contesto a contesto, da paese a paese, e io parlo per quanto concerne la situazione rumena. Da una prospettiva di sinistra, per capire cosa è possibile e necessario fare occorre analizzare attentamente il contesto storico attuale e riconoscere che siamo in una posizione di estrema debolezza. A partire dagli anni '70, il regime socialista iniziò a perpetrare politiche di stampo decisamente nazionalistico, sviluppando una retorica che andava contro le minoranze, contro i diritti delle donne e persino contro i principi stessi del marxismo. Pertanto una prospettiva veramente di sinistra, in special modo di carattere emancipatorio, è stata completamente espulsa dal discorso pubblico. Gli intellettuali marxisti vennero emarginati, cosa ironica per un regime che si dichiarava comunista. Negli anni '80 ha avuto dunque luogo un processo di riabilitazione di figure di intellettuali di destra che nel periodo fra le due guerre addirittura solidarizzavano con gli ideali fascisti e negli anni '90, dopo la caduta di Ceauşescu, la situazione è letteralmente esplosa: il dibattito pubblico è stato dominato dall'opposizione fra ex-comunisti di destra e neoliberali anch'essi di destra. Si tratta di un'estremizzazione che fa però comprendere come le prospettive destrorse siano diventate egemoniche nella sfera pubblica, dalla televisione ai libri, dalle case editrici ai giornali per quasi 20 anni.
Tutto questo ha avuto come conseguenza un generale disinteresse verso la politica, la normalizzazione del razzismo e del classismo nella sfera pubblica nonché una demonizzazione pressoché totale del discorso della sinistra. Sulla scorta di ciò io credo che, affinché una resistenza o delle azioni dirompenti di natura collettiva siano anche solo pensabili, occorra capire come rapportarsi a tale situazione, in che modo metterla in questione e mostrare la possibilità di differenti interpretazioni della realtà. Ecco perché col nostro progetto quello che intendiamo mettere in atto è una vera e propria azione di propaganda, intesa in senso emancipatorio. Una contro-propaganda da una prospettiva critica, che possa provocare discussioni e dibattiti relativi all'attuale situazione sociale, politica ed economica nonché contestare lo status-quo e gli stereotipi promossi dal discorso dominante. Come artista, date le circostanze in cui ci troviamo, penso sia sostanzialmente impossibile fare la rivoluzione ma occorre provare a lavorare per creare le condizioni di possibilità per un nuovo cambio di paradigma.
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