Mosca, Russia - 27.02.2022 - Agenti di polizia trattengono una donna in piazza Pushkin durante una manifestazione contro la guerra © Konstantin Lenkov/Shutterstock

Mosca, Russia - 27.02.2022 - Agenti di polizia trattengono una donna in piazza Pushkin durante una manifestazione contro la guerra © Konstantin Lenkov/Shutterstock

È tempo di prendere atto che i cittadini russi sono ben altro dal loro presidente autoritario. Un commento

11/03/2022 -  Jeremy Morris

(Originariamente pubblicato da Rosa-Luxemburg-Stiftung , il 9 marzo 2022)

Le analisi dell'aggressione russa e dell'invasione dell'Ucraina si concentrano comprensibilmente sul revanscismo sciovinista e sulle velleità di grande potenza all'interno dell'élite russa, apparentemente condivise da quella che sembra essere un'ampia parte della società russa. Mentre restano validi gli approcci costruttivisti e neorealisti che emergono dalle cattedre di scienze politiche e di geopolitica, vorrei prestare attenzione ad un quadro "più ampio" e contemporaneamente "più piccolo". Si tratta della questione della Russia, materia rimasta accantonata in Europa dal 1989, e dell'inquietante mancanza di interesse tra gli europei (e gli studiosi europei) per i russi stessi.

Questi i miei argomenti principali: la variegata società russa e gli atteggiamenti verso la guerra in atto sono complessi e raramente revanscisti o neo-imperialisti. Inoltre, l'incredulità dell'Occidente di fronte ad una presunta "assenza" di resistenza in Russia alla guerra dimostra la nostra ignoranza sulla natura dello stato autoritario. Infine, dovremmo resistere all'impulso di attribuire una colpa collettiva e imporre una punizione collettiva, evitando volgari conclusioni sociologiche sui sostenitori di Putin in Russia, che sarebbero “poco istruiti” e “poco informati".

Definire chi è (e chi non è) “europeo”

È comprensibile che le persone si concentrino sulla lotta del popolo ucraino contro l'invasione, ma il conflitto stesso dimostra che "la Russia ha perso l'Ucraina" (una frase molto diffusa nel pensiero geopolitico russo) molto tempo fa: nel 2004 o anche già nel 1989, quando i sovietici permisero in Ucraina il formarsi di un movimento d'opposizione civico-politico: Narodyni Rukh ("Movimento del popolo)".

L'Ucraina è una nazione europea, e uno stato europeo, ma lo è anche la Russia. E pochi sono pronti a riflettere su questo. È conseguenza della nostra mentalità radicata della Guerra fredda il ritenere giusto e naturale che il paese più grande per popolazione e dimensioni in Europa non sia rilevante per il "progetto europeo".

Senza entrare nel dettaglio del fallimento del Partenariato Orientale di integrazione graduale di alcuni stati ex sovietici, che di per sé implicava l'(auto) esclusione della Russia, ha fatto comodo all'UE ignorare i 110 milioni di russi (non contando la Siberia e l'Estremo Oriente). È stata pronta a rilasciare visti d'oro alle decine di migliaia di milionari russi, ma il fatto che vi siano solo programmi frammentari di borse di studio e scambi scolastici e poche possibilità per una persona con un salario medio di ottenere un visto Schengen per più di due settimane, rivela l'impegno in questa direzione per quello che è: trascurabile.

Qual è stata una delle prime risposte dei cechi all'invasione russa? Una proposta di punizione collettiva, suggerendo che i cittadini russi fossero banditi da Schengen. Similmente vi sono in Europa un sacco di colleghi studiosi che si sentono a loro agio e scrivono e firmano lettere che chiedono alle comunità intellettuali di escludere completamente i russi.

Naturalmente, anche la leadership russa era molto a suo agio nella situazione protrattasi sino ad oggi. Putin poteva recarsi nella sua residenza in Spagna, i suoi ideologi e i loro figli avevano case in Italia e nel Regno Unito.

Intere fazioni politiche nei paesi europei risultano ora macchiate dalla loro disponibilità ad accettare denaro in cambio di un’imbiancatura dell'autocrazia russa. Il tacito consenso che ha permesso al capitale russo corrotto di incanalare denaro verso l'Occidente è una forma di connivenza che non è sfuggita alla maggior parte dei russi, la cui ricchezza nazionale è stata derubata per più di una generazione.

Forse questo è il vero risentimento di cui dovremmo parlare: questi "altri" russi, non l'intellighenzia anglofona e i nuovi ricchi intelligenti, sono rimasti (insieme ai serbi) gli ultimi non europei, indegni di essere menzionati o considerati. Erano però loro a pompare il nostro petrolio e gas e ad estrarre i metalli. Non esiste uno strumento bilaterale UE-Russia che veda le relazioni al di fuori della lente del commercio o dell'economia, in netto contrasto con il concetto di "libertà" all'interno del blocco europeo che è almeno in parte sociale e centrato sui diritti delle persone.

Riconoscere la resistenza russa

Boris Eltsin è salito al potere, almeno in parte, sfruttando l'opportunità offertagli dalla negazione storica dei russi come soggetti politici, come stato-nazione. E ancora una volta, come europei, siamo stati molto felici di sostenerlo, anche quando si è bruscamente voltato altrove e ha creato lo stato autoritario e revanscista che vediamo oggi. Come sottolinea Viacheslav Morozov , nonostante la creazione della Federazione Russa, a diversi popoli, compresi quelli di etnia russa, rimane negata qualsiasi soggettività politica all'interno di un "impero subalterno".

La Russia occupa la terra di nessuno tra il centro "civilizzato" e la periferia orientalizzata. È doppiamente oppressiva, sia in patria che all'estero. I suoi abitanti sono tuttavia vittime per una terza volta quando proiettiamo su di loro le nostre fantasie liberali derivate dalla teoria dei movimenti sociali sulla possibilità che vi sia un "buon" cambio di regime. Siamo sempre pronti a punire e giudicare come inetti coloro che non sono disposti a immolarsi in quella che è una simbolica segnalazione di virtù. Per noi è un click su un mouse. Per loro è perdere il lavoro, l'istruzione, la cittadinanza, la vita.

È la Russia stessa, con le sue enormi energie centrifughe e centripete che macinano con un silenzio assordante una sull’altra, a essere messa a tacere dalla nostra attenzione esclusiva alla politica delle élite. I russi servono essenzialmente come una "mancanza" nell'immaginario europeo, da contrapporre alla nostra pienezza. Si suppone che noi godiamo della società civile, di una sfera pubblica deliberativa, di istituzioni e tradizioni democratiche. La Russia presumibilmente non ha nulla di tutto questo, ma, mentre scrivo, oltre 8.000 persone sono state arrestate per aver protestato apertamente contro la guerra in Ucraina: un atto che ora equivale al "tradimento". E nonostante tutto questo le ONG informali continuano a organizzare solidarietà sociale e assistenza legale per i prigionieri politici.

Vale la pena sottolineare che la stessa vita quotidiana in Russia è incompatibile con un'opposizione diffusa al regime e alle élite politiche, essendo occluso ogni spazio per la costruzione della solidarietà che aiuterebbe tale resistenza a crescere e sostenersi efficacemente. Gli ucraini e le altre nazioni dell'Europa orientale che sono state vittime dei crimini storici russi e sovietici stanno ora riutilizzando narrazioni che ho sentito tante volte: incolpare della mancanza di azioni visibili i cittadini russi, ritenendoli responsabili in quanto complici. Queste sono argomentazioni spesso utilizzate anche dagli studiosi antirazzisti. Incolpare e punire persone che sono oppresse. Ma in che modo questo può costruire solidarietà? Sappiamo che non può.

Ovunque, anche in Ucraina, i russi usano ogni giorno tattiche prefigurative per cercare di diventare soggetti politici. Un carrista che svuota il suo carburante su una strada invernale fuori Kharkiv non è solo un atto di interesse personale, è segno della volontà di pensare diversamente dalle forze che ci controllano. Jacques Rancière la chiama "politica come processo di soggettivazione".

Molti soldati russi sono stati reclutati con la violenza o con l'inganno. Nella stessa Russia, i russi vivono in uno stato autarchico securizzato dove la qualità della vita è notevolmente peggiorata dall'annessione della Crimea da parte di Putin nel 2014. David Harvey, scrivendo per Focaal , si concentra sull'umiliazione economica e morale del popolo russo negli anni '90, e sulla sua esclusione dalle istituzioni internazionali se non alle condizioni più miserrime. Come Tony Wood sottolinea in risposta , è pericoloso psicologizzare partendo dal tema dell’umiliazione, in quanto ciò può essere male interpretato come una giustificazione per l'aggressione russa.

Il mio lavoro etnografico in Russia cerca di far emergere i diversi poteri dell’agire, della parola e del pensiero politico critico tra la gente "comune". Lo vediamo ora nella diffusa repulsione all'interno della Russia verso la sua élite guerrafondaia, le grandi proteste contro la guerra. Tuttavia, la questione "sociale" è più complicata: abbiamo una popolazione demoralizzata ed economicamente esausta, i cui pensieri sono principalmente rivolti a sbarcare il lunario mentre un'élite rapace la tiene quasi in schiavitù. Questa resistenza “minima” e sottrattiva è probabilmente il massimo che possiamo sperare al momento, anche se l'educazione politica tra i lavoratori precari sta dando i suoi frutti. Dovremmo evitare di pensare che magicamente si possa verificare, nella Russia del 2022, una mobilitazione di massa.

Costruire la solidarietà andando oltre la nazionalità

Sia per l'Ucraina che per la Russia, la sfida è ora come intraprendere un'azione collettiva contro lo stesso aggressore. Finora, gli ucraini hanno dato una lezione di solidarietà tanto quanto di resistenza. Rimane il problema del nostro riconoscimento condizionato e strumentale dell'europeità. Abbiamo bisogno di una politica prefigurativa che riconosca e incarni principi e ideali comuni a prescindere dalla nazionalità. Abbiamo bisogno di contro-istituzioni, anti-gerarchie e solidarietà internazionale: qui torniamo al meglio del lavoro di Rosa Luxemburg , la cui posizione etica proclamava il valore universale di tutte le persone in un'epoca di stati catturati dalle élite e di disuguaglianza globale.

Vediamo già una folle corsa a sottolineare la presunta inadeguatezza "civile" della Russia e dei russi. Improvvisamente, un’orda inferocita di giornalisti, studiosi e "pensatori", che fino alla settimana scorsa si erano completamente disinteressati tanto degli ucraini quanto dei russi, si fanno ora portavoce di Thanatos e invocano la terza guerra mondiale. La presunzione di poter decidere chi è europeo, e come dev’essere europeo per andarci bene, è parte del perché siamo arrivati a questo punto. Dare per scontato che dittatura significhi consenso, accettazione forzata o sindrome di Stoccolma è un facile modo per evitare di affrontare la condizione dei nostri compagni europei in Russia, uno stato altamente incongruente che ha deluso la maggioranza della popolazione.

Gli ucraini non sono "supereroi" che combattono per la civiltà contro la barbarie, stanno combattendo per l'autodeterminazione contro un aggressore revanscista, uno stato autoritario. Potrebbero perdere, o la loro lotta potrebbe venire sommersa da un conflitto globale. La maggioranza dei russi non è fatta di creduloni passivi né di nostalgici sciovinisti.

Questo "errore" sociologico è simile a quello fatto sull'identità di classe dei sostenitori di Trump nel 2016. I sostenitori più accaniti del neo-imperialismo possono essere russi "cosmopoliti" e agiati oppure no. Sono anche "razzisti sociali" in patria: chiamano i loro compatrioti "carne da macello" e "teste di legno". 

Quello che manca in questo quadro è la posizione della stragrande maggioranza delle persone impoverite, nel peggiore dei casi "moralmente indifferenti" a quello che sta succedendo, proprio come lo è la maggior parte di noi ai molti conflitti di cui gli stati occidentali sono responsabili. Soprattutto, sono contro la guerra per principio. Con le loro imperfezioni e i loro desideri di una vita migliore, i russi sono poco differenti dai popoli non ancora post-coloniali di Francia e Inghilterra e hanno più cose in comune con i cittadini degli Stati Uniti di quanto entrambe le nazioni vogliano ammettere.

 

Jeremy Morris è un ricercatore presso l'Università di Aarhus, in Danimarca, dove lavora sui rapporti di lavoro, l'economia politica e la vita nell'ex Unione Sovietica. È autore di Everyday Postsocialism (Palgrave, 2016) e scrive su www.postsocialism.org .

Tutti i nostri approfondimenti nel dossier "Ucraina: la guerra in Europa"


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