Venti anni fa, a Belgrado, la prima grande manifestazione contro il regime di Milošević. Inizia con questa data il nostro dossier sui vent'anni dall'inizio della guerra in Jugoslavia. Il racconto di chi allora era ancora una ragazzina, ma che il 9 marzo del 1991 iniziò, per la prima volta, a manifestare per una Serbia diversa
“Mi ricordo che era marzo,
per molti di voi un giorno del tutto normale,
ma nel mio cuore è rimasta una traccia”.
Dža ili Bu, gruppo punk belgradese
Quando Luka Zanoni alcune settimane fa mi ha chiesto di scrivere un testo sui miei ricordi del 9 marzo, ho accettato senza esitazione, felice di poter ricordare le mie numerose battaglie contro il regime di allora. Non immaginavo nemmeno che sarebbe stato per me sino ad oggi uno dei testi più difficili da scrivere.
Avevo sedici anni. Sono cresciuta in una famiglia di jugoslavi che rifiutavano di credere che le guerre stavano bussando alla porta di casa e che il sistema, l’unico che conoscevano, si stava sgretolando alla velocità della luce. Non ricordo nemmeno che i miei genitori abbiano votato alle cosiddette prime elezioni multipartitiche in Serbia. Non riesco a ricordare quando in casa nostra sono iniziate le discussioni di politica e quando sono iniziati i conflitti tra me e loro. I miei non mi hanno mai vietato nulla e nemmeno lo hanno fatto quando ho iniziato, probabilmente inconsapevole di quello che dicevo, a chiedere che mettessero in discussione tutto quello in cui avevano creduto fino a quel momento, quando per settimane li avvertivo che eravamo minacciati da un abisso collettivo, il tutto impiegando grandi parole come: regime autoritario, sistema multipartitico, liberalismo, terrore, guerre, diritti umani e libertà. Scavo nella mia coscienza e non trovo da dove mi siano venute quelle parole e dove le ho udite per la prima volta.
Riesco solo a ricordare lo shock sui loro volti quando la loro figlia ancora minorenne iniziò la sua personale campagna politica in casa Nenadić. Quotidianamente li “incitavo”, chiedevo che ci ripensassero, chiedevo che mi seguissero, li investivo con discorsi sul mio futuro, dicevo loro che a causa mia dovevano cambiare e non capivo per niente di quale tipo di paura mi stessero parlando.
C’è qualcosa che però ricordo chiaramente. Ero al corrente delle dimostrazioni fissate per il 9 marzo. A scuola alcuni di noi “politicamente consapevoli” si erano divisi tra i simpatizzanti del Movimento per il rinnovamento serbo (SPO) e il suo leader Vuk Drašković e il Partito democratico (DS). Io ero in questo secondo gruppo. Parlavamo della partecipazione alla manifestazione, anche se non avevamo la minima idea di cosa fosse e nemmeno del motivo esatto per cui si organizzava. Non c’era nessuno che mi informasse. La televisione era controllata dal regime e il poco che ero riuscita ad ascoltare alla Radio B92 non era sufficiente per farmene un'idea. Ai miei non avevo detto nulla fino al mattino del 9 marzo. Loro pensavano che ci saremmo momentaneamente recati dalla nonna, in paese. Suonava così: quello che non vedo non mi riguarda.
Per giorni avevano sussurrato tra loro, negli angoli della casa, pensando che non sentissi, che ci sarebbe stato caos per le vie della città e che quindi una figlia giovane e inesperta va portata lontano. Io non volevo sentirne di andare via. Alla fine accettarono di rimanere a Belgrado, probabilmente non immaginando che mi sarebbe venuto in mente di uscire di casa quel 9 marzo. Più tardi hanno imparato, poveri i miei genitori, che non ci sarebbe più stata una sola dimostrazione a cui la loro figlia non sarebbe andata.
Mattina del 9 marzo 1991. Mamma e papà guardano la televisione. Al solo ricordo di cosa dicevano i giornalisti dell’allora RTB (Radio televisione di Belgrado) mi si rivolta lo stomaco. A questo non c’è cura, nemmeno dopo vent'anni. Sin dal mattino la polizia era per le strade, dicevano che i dimostranti sono forze dell’oscurità e del male. Sto in piedi davanti a miei genitori e dico che vado alla manifestazione. Ricordo lo shock. Mia madre cerca di controbattere, anche se sa che non cederò. Allora si mette a piangere. E poi mi minaccia. Mio padre tace, il suo cuore di genitore va in frantumi, arrabbiato e furibondo. lo vedo, ma capisco che non è arrabbiato con me, si sente impotente, sa bene che il nostro mondo sta cambiando e non sa come affrontarlo. Non credono ai divieti. E ora, come possono dirmi di non andare? Hanno il terrore che ci siano grandi scontri, come possono lasciarmi andare? Hanno sentito dire che verranno filmati tutti i partecipanti alla manifestazione e si chiedono come possono venire con me se poi magari rimarranno senza posto di lavoro, con grave danno per tutta la famiglia. Qual è la scelta migliore? Si scervellano i miei genitori. E io li capisco solo adesso.
Vado alla manifestazione con altri tre compagni di scuola. Non siamo andati molto lontano. La polizia è a tutti gli ingressi per Piazza della Repubblica. Vediamo come picchiano le persone. I dimostranti urlano “Si è svegliata la Serbia”. Folti gruppi si dirigono verso il centro della città. Ad ogni angolo la polizia. I dimostranti giocano a scacchi con le forze dell’ordine, si ritirano nelle viuzze e cercano dei passaggi. Sento la voce di un amico che urla “fuggite, arrivano i cannoni ad acqua!”. I dimostranti più coraggiosi, incitati dalle urla di Vuk Drašković “Avanti, eroi”, saltano sui mezzi blindati e vi infilano bandiere. Mi prende il panico, ad un tratto sono come paralizzata e non so cosa fare. Gli amici mi trascinano sul marciapiede e poi a casa. La mia prima esperienza da manifestante dura in tutto mezz’ora.
A casa in silenzio guardiamo la televisione. Tutt’oggi ricordo bene l’immagine di una donna che orgogliosamente impettita con le tre dita alzate fronteggia il cannone ad acqua. Riconosco Dragana Milojević, una vicina che di passaggio mi aveva detto che fra poco sarebbe arrivata la libertà. La sera le vie della mia città sono occupate dai carri armati. Vado a letto piena di rabbia e di paura. Per la prima volta decido consapevolmente che la mia lotta per un’altra Serbia è iniziata. Con i miei genitori ho lottato ancora un anno, finché anche loro non sono passati all’opposizione. Contro il regime, insieme a centinaia di migliaia di altre persone, ho lottato per altri nove anni.
Il giorno successivo (10 marzo) sono a Terazije, partecipo alla “rivoluzione di peluche” organizzata dagli studenti dell’Università di Belgrado, e così chiamata per sottolinearne l’aspetto pacifico. Avverto la speranza, attorniata da gente che la pensa come me. Il 9 marzo diventerà uno spartiacque nella mia vita.
Se solo avessi saputo quanto avremmo dovuto aspettare per un’altra occasione, se solo avessi avuto qualche anno in più, se solo non mi fossi spaventata, se solo non fossero rimasti sorpresi e scioccati tutti quelli che quel giorno erano per le vie di Belgrado, se fossero stati più organizzati, se Vuk Drašković avesse saputo come reagire, se non avessero richiesto le dimissioni dei redattori della RTS ma piuttosto quelle di Milošević, se Dragoljub Mićunović non avesse invitato i simpatizzanti del DS a ritirarsi perché era già scorso abbastanza sangue, se fossi, se fossero, se fosse... ma non ho, non hanno, non è... ecco perché abbiamo aspettato fino al 5 ottobre 2000.
Ed ecco perché non mi viene una conclusione intelligente per questa storia sul 9 marzo. Questa data l’ho sotterrata, mi è difficile ricordarla, mi prende la nausea a pensare a tutti quegli anni perduti, ma più di tutto mi fa male sapere che l’insuccesso della manifestazione del 9 marzo aprì la porta alle guerre, alle uccisioni, ai bombardamenti e a quegli anni bui in cui noi non esistevamo.
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