Zoran Đinđić (foto Demokratska stranka)

Zoran Đinđić (foto Demokratska stranka )

Il 12 marzo 2003 veniva assassinato il premier democratico Zoran Đinđić. Sono passati diciotto anni da quell'omicidio che in un certo senso ha segnato la morte della democrazia in Serbia. Un editoriale

12/03/2021 -  Srđan Cvijić

(Originariamente pubblicato da Balkan Insight , l’11 marzo 2021)

Oggi (12 marzo) ricorre il 18° anniversario dell’omicidio di Zoran Đinđić, il primo premier serbo democraticamente eletto dopo la Seconda guerra mondiale. Questo attentato ha inciso negativamente sulla democratizzazione della Serbia più di qualsiasi altro evento degli ultimi due decenni.

Quanto più ci allontaniamo da quel fatidico 12 marzo 2003, tanto più confusa diventa la comprensione dei retroscena e dei processi storici che hanno portato alla morte della democrazia serba, uccisa sul nascere. Tralasciando le più bizzarre teorie del complotto, alcune (errate) interpretazioni dell’omicidio di Đinđić dominano ancora il discorso pubblico.

No, Zoran Đinđić non è stato ucciso a causa della sua determinazione a consegnare i sospetti criminali di guerra al Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia.

No, non è stato assassinato a causa della sua intenzione di risolvere finalmente la questione del Kosovo. A differenza delle guerre fratricide combattute sul territorio dell’ex Jugoslavia negli anni Novanta, il nazionalismo tribale non era la causa, bensì un mezzo usato, senza successo, per ottenere il sostegno popolare per l’attentato.

Đinđić è stato assassinato perché si stava preparando ad infliggere il colpo di grazia a uno dei più potenti clan criminali del paese. Le persone che hanno ucciso Đinđić lo hanno fatto per evitare di finire in carcere. L’assassinio di Đjinđić è il risultato di una congiura orchestrata da una banda del sottobosco criminale serbo, il cosiddetto clan di Zemun, e da alcuni membri dell’apparato di sicurezza statale.

In Serbia, l’omicidio di Đinđić è stato più volte paragonato all’assassinio di John Fitzgerald Kennedy. Tuttavia, questi due attentati non hanno nulla in comune, a parte il fatto che entrambi sono stati compiuti con un fucile di precisione.

Nel film “JFK” del 1991 il procuratore distrettuale Jim Garrison, interpretato da Kevin Costner, interroga un uomo presumibilmente coinvolto nella morte del 35° presidente degli Stati Uniti. Alla domanda di Garrison: “Allora chi ha ucciso il presidente?”, l’uomo risponde (parafrasando Churchill): “È un mistero! Un mistero avvolto in un arcano all’interno di un enigma! Non lo sa nemmeno chi ha sparato!”.

A differenza dell’assassinio di Kennedy, ancora avvolto nel mistero che ha reso possibile la diffusione di varie teorie del complotto, il processo per l’omicidio di Đinđić ha consentito di chiarire quasi completamente chi, come e perché ha assassinato il premier serbo.

Tuttavia, in molti dubitano che gli esponenti della malavita si fossero azzardati ad attaccare autonomamente il capo del governo serbo, ritenendo che i criminali avessero trovato il coraggio di compiere tale atto grazie al sostegno di alcune figure politiche da cui hanno ottenuto l’approvazione, più o meno esplicita, per eseguire l’attentato.

Nel dicembre 2011, la madre e la sorella di Zoran Đinđić hanno sporto denuncia contro Nebojša Čović, vicepremier del governo guidato da Đinđić e suo finto alleato, e Velimir Ilić, all’epoca dell’omicidio membro della coalizione di governo, accusandoli di aver saputo del piano di uccidere Đinđić e di non averlo denunciato alle autorità.

Anche alcuni testimoni di giustizia al processo per l’omicidio Đinđić hanno affermato che Čović era a conoscenza della congiura e che la sua intenzione era quella di sedersi sulla poltrona di primo ministro dopo l’attentato a Đinđić. Sia Čović che Ilić hanno respinto tutte le accuse e il pubblico ministero non ha mai chiesto venisse avviato un procedimento penale nei loro confronti.

Lucio Cassio, uno dei più rinomati giudici dell’epoca romana, coniò l’espressione “cui bono” [chi ne beneficia], diventata il principio fondamentale su cui basare un’indagine penale. Dopo l’uccisione di Đinđić, Čović fu nominato premier ad interim, ricoprendo però quell’incarico solo per quattro giorni. L’assassinio di Đinđić aveva indebolito il suo Partito democratico (DS) e alla fine del 2003 il suo principale rivale, Vojislav Koštunica, venne eletto primo ministro.

Il partito di Koštunica aveva condotto una ignobile campagna contro Đinđić nel periodo immediatamente precedente al suo assassinio, e alcuni stretti collaboratori di Koštunica avevano intrattenuto rapporti con i principali ideatori dell’omicidio di Đinđić.

I collaboratori di Koštunica vicini al clan di Zemun furono arrestati durante lo stato di emergenza proclamato dopo l’attentato, ma poco dopo vennero rilasciati. Non sono mai stati ufficialmente accusati di coinvolgimento nella congiura finalizzata all’omicidio di Đinđić.

Omicidi su commissione di esiliati politici

L’assassinio di Đinđić sarebbe stato possibile senza l’esistenza di una congiura politica ben orchestrata?

Nel suo libro “Anatomia di un istante”, Javier Cercas descrive varie azioni, spesso non coordinate tra loro, compiute da diversi attori politici durante il tentato colpo di stato avvenuto in Spagna il 23 febbraio 1981.

Usando la metafora della gravidanza, Cercas definisce queste attività politiche come “placenta che alimenta il golpe”. Similmente, una serie di mosse politiche non coordinate compiute da diversi gruppi di interesse che, pur non avendo partecipato direttamente alla cospirazione finalizzata all’omicidio di Đinđić, erano intenzionati a destabilizzare il suo governo, divenne un terreno fertile per la congiura.

Tuttavia, questo non spiega come mai dei semplici criminali si fossero azzardati a uccidere il primo ministro. Per sciogliere questo interrogativo dobbiamo tornare agli anni Settanta.

Fino alla caduta del Muro di Berlino, la violenza terroristica veniva spesso usata come mezzo per risolvere dissidi politici in Europa. Anche i servizi segreti della Jugoslavia comunista avevano sviluppato una propria versione di terrorismo di stato, ingaggiando i criminali locali per assassinare gli esiliati politici che si opponevano al regime di Josip Broz Tito.

Nel 2016 un tribunale belga ha condannato un ex membro dei servizi segreti jugoslavi e due criminali provenienti dall’ex Jugoslavia per l’omicidio di un attivista albanese per i diritti umani avvenuto in Kosovo nel 1990. Sempre nel 2016, due ex membri dei servizi segreti croati sono stati condannati all’ergastolo da un tribunale tedesco per l’omicidio di un emigrante croato avvenuto nel 1983. Questi sono solo due dei tanti omicidi organizzati dalla polizia politica della Jugoslavia comunista.

Per i servizi offerti al regime comunista i criminali jugoslavi ottenevano in cambio un sostegno logistico per compiere azioni criminali in Europa occidentale e la possibilità di vivere in Jugoslavia godendo di totale impunità. Nel corso di due decenni, proprio grazie a questo legame, la criminalità si è pian piano insinuata nei servizi segreti jugoslavi.

Poi sono arrivati gli anni ’90, le guerre e la variante jugoslava del rozzo capitalismo post-comunista. Gli ex criminali, ancora più potenti grazie ai profitti di guerra, al narcotraffico e alle privatizzazioni, sono diventati protagonisti della vita sociale e politica in Jugoslavia. Il confine tra stato e criminalità è diventato completamente sfocato. A pari degli assassini di Đinđić, anche gli altri criminali hanno iniziato a credere di essere più potenti dello stato.

Ritenere che Milošević e gli anni ’90 siano la radice di tutti i mali è un errore comunemente commesso nell’interpretare la recente storia delle terre jugoslave. Il regime di Milošević e le sanguinose guerre jugoslave hanno segnato la fine del periodo di incubazione quando i sintomi di una malattia infettiva sono diventati evidenti.

Il virus dell’autoritarismo criminale era presente in Serbia e in gran parte della regione almeno dall’epoca della nascita dei primi stati nazionali moderni. Il comunismo, il nazionalismo e il capitalismo selvaggio degli ultimi trent’anni sono solo le mutazioni più recenti dello stesso virus.

La Serbia e gli altri paesi della regione aspettano un vaccino, sperando che l’adesione all’Unione europea possa essere il rimedio di cui hanno bisogno.


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