Non un teatro marginale, ma il teatro del margine, animato da pulsioni di rivolta civile e di impegno sociale. La storia del DAH Teatar, nato a Belgrado nel 1991 e ancora oggi attivo per restituire voce ai destini abbandonati dalla Storia
“I teatri del margine non sono teatri marginali. Tentano di difendere un margine... Lottano affinché le estetiche, le ideologie, le tecniche, le poetiche, le mode NON lo invadono... Il margine può essere scabroso, ma può anche essere una riserva d’aria per chi si sente soffocare; una riserva dove possano vivere valori minacciati e difficili da condividere; pulsioni di rivolta; animali che nessuna arca ha voluto salvare...”
Con queste parole Eugenio Barba ha ringraziato nel 1997 per il Premio Internazionale “Luigi Pirandello”, che non ha voluto accettare in nome dell’Odin Teatret bensì condividerlo (non in modo retorico ma fondendolo in tanti orecchini) con tutti coloro che appartengono al cosiddetto “Terzo Teatro”.
Tra questi è da annoverare sicuramente il DAH Teatar di Belgrado. Difendere il margine fu fin dall’inizio infatti la preoccupazione principale delle sue fondatrici, Dijana Milošević e Jadranka Andjelić, trovatesi nella situazione impossibile di voler mettere in scena il loro primo spettacolo nel momento in cui la minaccia incombente di un conflitto diventava realtà.
Si era nella Belgrado del 1991, sempre più sommersa da una pesante atmosfera autoritaria e nella quale gli intellettuali in un primo momento scelsero di rimanere in silenzio, per poi lasciarsi per la maggior parte pervadere da sentimenti nazionalisti. Furono al contrario pochi coloro i quali sentirono come pressante la necessità di ridefinire il proprio ruolo e responsabilità, in quanto artisti ma soprattutto esseri umani.
La fiducia nell'utopia
Quello che contraddistinse questi pochi nonconformisti fu, come ha ribadito Dijana Miloševic in un’intervista rilasciata anni dopo, la presa di coscienza della necessità di porre tutta la fiducia nell’utopia che l’arte potesse influire su cambiamenti positivi nella società, poiché già il fatto di voler credere in un’utopia cambia l’intero modo di pensare e agire degli artisti, con la potenzialità di influenzare anche quello del pubblico.
Di fronte ad una paurosa estetizzazione della politica (che si evidenzia inevitabilmente, come sosteneva Walter Benjamin, come la materializzazione più minacciosa di una crisi di percezione, esistente sempre nei retroscena delle crisi sociali) bisognava politicizzare l’arte, cercare di salvare la sua funzione cognitiva. L’obiettivo, per quanto utopistico, doveva diventare quello di trasformare la cultura, degradata ad una rappresentazione illusoria e ingannevole della realtà, in una profonda analisi di tali fantasmagorie, in uno strumento di stimolo all’azione sociale critica.
Questa confusione babilonica
Da queste premesse nel 1991 parte l’attività di DAH Teatar, con la performance Questa confusione babilonica portata per le strade di Belgrado alla ricerca del pubblico tra la gente lasciata completamente all’oscuro di quello che stava succedendo. Sopravvivere in quei tempi bui, andando ostinatamente controcorrente, sembrava un’impresa impossibile, incastrati tra la brutalità del potere da un lato e la società con i sensi intorpiditi dall’altro.
Tuttavia DAH Teatar esiste ancora, ed è diventato una realtà professionale, stabile, riconosciuta (almeno a livello internazionale), che poggia ancora sulle stesse premesse e, di conseguenza, tuttora costretta a lottare per il proprio margine.
Il margine
In Serbia oggi esiste, anche se magari solo formalmente, una sfera pubblica all’interno della quale si può tentare di far sentire la propria voce; esistono i concorsi nell’ambito della cultura, che almeno danno la possibilità alle iniziative indipendenti di farsi visibili; esiste uno scambio più fluido con altre realtà dell’attivismo civile sparse nel mondo; dall’altra parte, però, la diffidenza e non di rado la violenza nei confronti del “diverso”, la censura (esplicita o meno) di qualsiasi eterodossia intellettuale, la sottomissione del patrimonio culturale agli imperativi del profitto nonché una burocrazia completamente ignorante riguardo agli impegni del settore civile, rappresentano la realtà dominante, quella che condiziona la vita quotidiana degli “emarginati”.
Lo evidenzia chiaramente la lotta continua condotta dai membri della compagnia DAH Teatar per il proprio spazio, in quanto le autorità (in questo caso quelle della scuola dove dal 2003 il teatro ha trovato il proprio rifugio), con una cadenza quasi regolare, li costringono, davanti alla minaccia dello sfratto, a ricordare all’opinione pubblica chi sono, da quando esistono, che cosa hanno fatto, quanti premi e riconoscimenti hanno ottenuto, etc.
Riarticolazione dell'agire
La necessità iniziale di alzare la voce contro la guerra e la distruzione, di ribellarsi contro la tendenza prevalente che seminava la paura e l’intolleranza, col tempo si è trasformata nel tentativo di dimostrare che il teatro, e l’arte in genere, può essere lo strumento di una effettiva riarticolazione dei modi di pensare e agire della società civile poiché in grado di svelare le radici dei problemi che sopraffanno una regione post-conflittuale e di sensibilizzare all’importanza del protagonismo attivo dei cittadini.
L’idea è stata quella di agire contemporaneamente a livello locale e regionale, ovvero di conquistare – anche inizialmente con le piccole iniziative - più spazio per l’arte e la cultura, di rianimare contro l’indifferenza, per un ambiente più sveglio, più partecipato e, di conseguenza, più aperto ai momenti di incontro e confronto con altre realtà. Una tale impresa nella Serbia degli anni '90 richiedeva molto coraggio e un enorme impegno, non solo creativo ma anche organizzativo, dato allora lo spazio e l’interesse per questo tipo di lavoro artistico-sociale erano quasi inesistenti.
Eppure, DAH Teatar è riuscito a portare i propri spettacoli per il mondo nel periodo in cui anche “l’altra Serbia” era condannata a sanzioni e pregiudizi stigmatizzanti; è riuscito ad organizzare forse il primo serio laboratorio teatrale sul tema dell’inclusione/esclusione sociale, rivolto ai giovani rom e non; ha tradotto nel linguaggio teatrale le testimonianze autentiche delle donne vittime di guerre jugoslave (raccolte dalle Donne in nero nel libro La guerra dalla parte delle donne), presentando coraggiosamente lo spettacolo in Serbia, Kosovo, Croazia, Bosnia, Macedonia; è stato uno dei pilastri del progetto di cooperazione regionale La rete dei ricordi, finalizzato a salvaguardare il ricordo al passato convissuto come un valore, a rendere di nuovo visibile quel suo lato umano, cosmopolita, a rivalorizzarlo in modo da non ostacolare il futuro delle nuove generazioni.
DAH Teatar è riuscito a diventare, senza quasi alcun aiuto istituzionale, un vero crocevia di idee ed esperienze di artisti e cittadini provenienti da diversi contesti ma uniti dalla stessa percezione della diversità non come un’ostacolante condizione di partenza bensì un “traguardo da raggiungere”.
Testimoni
Il percorso creativo di DAH Teatar parte sempre dalla ricerca storica, per poi coinvolgere testimoni diretti, in modo tale da renderli veri protagonisti degli spettacoli, nel tentativo di restituire, attraverso mezzi espressivi, il senso agli eventi alle cose, ai sentimenti, per aiutare la società a uscire dalla nicchia nella quale si è rinchiusa (o meglio, è stata rinchiusa) per affrontare con più lucidità il ricordo di un passato incombente.
In tale contesto è emblematico il progetto La forza del ricordo, realizzato nel 2013, focalizzato sul ricordo post-traumatico delle famiglie i cui membri sono scomparsi durante i conflitti nei Balcani. A partire dalla profonda riflessione sul senso di un tale ricordo (attraverso interviste con le famiglie delle vittime, raccolta della documentazione, studio di miti e tradizioni di diversi popoli), si è cercato di riportarlo ai suoi “proprietari” in una forma meno tormentosa, tale da permetter loro un’esistenza più sopportabile nel presente, senza dover rinunciare ai legami con il passato. L’esito finale di questo progetto è una sorta di performance teatrale/musicale, intitolata La presenza dell’assenza, che tenta di restituire ad ogni singola vittima una corposità, anche se effimera, che possa renderla universale, di tutti, magari anche salvarla dall’oblio.
L’utopia, direbbero gli scettici. Magari lo è, ma ogni spettacolo che riesce a creare un momento partecipato in cui cadono le barriere - in questo caso la condivisione del pane con gli ospiti/spettatori (a Belgrado, Kotor, Torino, Spoleto) in memoria di tutti gli scomparsi dell’ex-Jugoslavia, di ogni vittima della violenza storica - ha una reale potenzialità di stimolare una nuova forma di coscienza critica in grado di penetrare nel passato per poter affrontare le sfide del presente; una coscienza della quale la Serbia, i Balcani, l’Europa non sembrano meno bisognosi oggi di quanto lo erano venti o cento anni fa.
La regione balcanica, e per molti versi l’intera Europa, per quanto cambiata e “democratizzata”, soffre ancora del malessere post-traumatico, che continua ostinatamente a condizionare la sua memoria collettiva. I regimi politici continuano a scegliere quello che si deve ricordare o dimenticare, e impongono la propria versione della storia alla società. In tale contesto, non dovrebbe sembrare un’eresia l’idea che questo tipo di violenza di stato può essere sfidato, reso visibile dall’arte, la cui missione dovrebbe essere quella di cantare anche dei tempi bui, di restituire la voce, ispirandosi alla Po-etica kišiana, ai destini abbandonati dalla Storia.
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