Si apre oggi all'Aja il processo a Ratko Mladić. Carla Del Ponte, ex capo della Procura del Tribunale Penale Internazionale per la ex Jugoslavia, si esprime sulla posizione dell'imputato e sulla possibile direzione che prenderà il dibattimento. Nostra intervista
Oggi Mladić comparirà per la prima volta di fronte ai giudici. Che atteggiamento si aspetta dall'imputato Mladić? Cercherà di prolungare i tempi del dibattimento, di politicizzare il processo, oppure risponderà come un militare, con i suoi diari alla mano?
È difficile per me dare una valutazione. L'apparizione iniziale prevede semplicemente la presa di conoscenza dei capi d'accusa da parte dell'imputato, la lettura dell'atto d'accusa. La prima cosa da vedere sarà se Mladić rinuncerà alla lettura dell'atto. Milošević aveva rinunciato. Io spero che i giudici decidano che l'atto d'accusa vada comunque letto, perché si tratta di un momento importante, ma bisognerà vedere. Non credo poi che l'imputato abbia già scelto i propri avvocati, anche qui bisognerà capire se deciderà di difendersi da solo. Io credo che seguirà Milošević e Karadžić, che non riconoscerà il Tribunale, non riconoscerà la giustizia, che vorrà difendersi da solo e all'inizio non si dichiarerà né colpevole né innocente, per guadagnare un mese... Sicuramente cercherà di tirarla per le lunghe, questo sì.
Lei ha sostenuto l'accusa nel processo Milošević. Quanto Mladić era vicino all'ex presidente della Serbia?
Era molto vicino. Sia lui che Karadžić. I nostri testimoni, che erano degli insiders, cioè gente che era presente, ci avevano informato del fatto che sia Karadžić che Mladić andavano una volta alla settimana a riferire a Belgrado, a Milošević. L'organizzazione del genocidio è stata fatta da loro tre, più altri che partecipavano alle riunioni. Mladić è stato quello che ha messo in esecuzione il genocidio di Srebrenica, lui era lì. I resoconti che arrivavano all'ONU avvertivano che, nonostante si trattasse di un'area protetta, Mladić si stava preparando. E infatti l'ha fatto. Mladić è l'esecutore di questo piano genocida, la sua posizione è gravissima.
Chiuso il capitolo Mladić, e terminati gli ultimi processi all'Aja, saranno le corti locali a dover rispondere alla domanda di giustizia per i crimini degli anni '90 nei Balcani. Sono in grado di farlo?
Già lo fanno. Sia a Zagabria che a Belgrado e a Sarajevo. A Sarajevo c'è una Corte ancora mista, con giudici sia internazionali che nazionali. A Zagabria e a Belgrado sono giudici nazionali che stanno conducendo i processi per crimini di guerra e crimini contro l'umanità, e sono sostenuti sia dal Tribunale dell'Aja che – soprattutto Belgrado – dagli Stati Uniti.
In Republika Srpska però è stato convocato un referendum, poi ritirato, contro la Procura e la Corte di Stato bosniache. Lei ha fiducia in queste istituzioni?
La Corte di Sarajevo è una Corte mista, controllata già dall'interno dai giudici stranieri che ne fanno parte. Il problema della Bosnia attualmente è un problema politico, non tanto giudiziario.
In altre parole queste istituzioni sono in grado di lavorare così come sono, lavorano bene?
Sì.
Per quanto riguarda invece il Kosovo, perché secondo lei l'inchiesta sui crimini dell'UCK, quelli evidenziati nel suo libro “La caccia” e nel rapporto Marty, deve essere condotta dalle Nazioni Unite e non da Eulex?
Perché Eulex è sul territorio, è molto vicina al potere politico. In secondo luogo Eulex non ha giurisdizione fuori dal Kosovo. Se io penso ad esempio a quella fossa comune che avevamo individuato in Albania, lì Eulex non potrebbe operare, non ha giurisdizione. Inoltre Eulex non ha un programma di protezione dei testimoni che sia forte a sufficienza. Questi sono i motivi principali, e sono quelli che del resto anche il senatore Dick Marty ha già ampiamente espresso.
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