A che punto è la Serbia a distanza di oltre quattro anni dalla caduta del regime di Milošević? Ne parliamo col professor Aljoša Mimica, sociologo e docente all'Università di Belgrado, uno dei fondatori del Circolo di Belgrado, il gruppo di intellettuali che negli anni novanta cercò di fare muro contro la degenerazione della cultura e della società in Serbia
Di Ramona Parenzan, in collaborazione con Denis Kajić
Mi piacerebbe che lei mi presentasse, come un piccolo quadro, un'immagine di Belgrado oggi, come la "sente" lei, come la percepisce.
Nonostante tutti i cambiamenti avvenuti dopo il 5 Ottobre 2000, la mia immagine di Belgrado rimane sempre colorata di tinte fosche.
E' vero che non c'è più una massiccia e quotidiana violenza da parte della polizia nei confronti dei cittadini, così come non ci sono più scioperi, dimostrazioni, scontri mafiosi sulle strade in pieno giorno (anche se ultimamente stanno ricominciando), né, tanto meno, rifugiati che disperatamente si trasferiscono da una parte all'altra della città, né caos nel traffico urbano, negozi che lavorano "in nero" oppure chioschi costruiti in modo abusivo ad ogni angolo della città.
Il governo democratico della città, infatti, ha portato un po' di ordine riguardo il traffico, la pulizia, la sistemazione delle piazze e delle vie della città. Tuttavia, tutto ciò potrebbe essere ingannevole a prima vista, specialmente per gli stranieri che trascorrono alcuni giorni a Belgrado e vedono solamente la sua parte più bella: i bar, le librerie, la gioventù spensierata per le strade. Sotto tutte queste apparenze si nasconde, però, una triste realtà: una disoccupazione altissima, interi quartieri abbandonati a se stessi (specialmente in periferia), costruzioni abusive, scadenti infrastrutture cittadine, una città che fa fatica ad assimilare un così gran numero di gente venuta dal Kosovo, dalla Bosnia e dalla Croazia, un precario sistema sanitario e scolastico, una malasanità.
La situazione, inoltre, è ancora più grave per quanto riguarda la mentalità della gente: l'uomo "comune" non sente il bisogno di confrontarsi con il proprio passato, e questo è dimostrato pure dai sondaggi, secondo i quali più di metà della popolazione rifiuta qualsiasi tipo di collaborazione con il Tribunale dell'Aia. La guerra, l'isolamento, la dittatura di Milosevic, hanno sortito delle conseguenze che non possono essere nascoste da un'apparente allegria cittadina.
Qual è oggi "lo stato di salute" delle varie oasi presenti in Serbia? Mi riferisco soprattutto ai vari movimenti di soggettivazione e di resistenza politica e culturale? Qual è la loro forza politica? Qual è la dialettica che riescono a stabilire con tutto il resto della popolazione? Qual è il rapporto coi politici "istituzionali" , e, ancora, come vengono considerati dai media? Riescono a resistere?
Qui mi pone una serie di domande a cui è difficile rispondere, ma se ho capito bene, sono tutte riconducibili all'ambito del cosiddetto "settore non governativo" o "società civile". Ai tempi di Milosevic questo settore era totalmente marginalizzato, esposto a qualunque tipo di pressione da parte del regime, alle persecuzioni giudiziarie, così come alla violenza fisica. I media indipendenti subivano costanti pressioni e, inoltre, venivano tacciati di essere "traditori", "cattivi serbi" e "mondialisti".
Questo settore ha contribuito molto, specialmente dopo i bombardamenti del 1999, alla creazione di uno spazio di maggior autocoscienza tra i cittadini, specialmente in provincia, nella cosiddetta "profonda Serbia" che costituiva, fino a quel momento, il sostegno più forte al populismo di Milosevic.
Mi riferisco in particolare al movimento di OTPOR, alle radio e alle tv indipendenti, e anche alle attività e alle diverse iniziative civiche che comparvero spontaneamente verso la fine del regime. Dopo il 5 Ottobre molte di queste iniziative sono tramontate: gli attivisti pensavano che non ci fosse più bisogno di loro, e, contemporaneamente sono rimasti senza aiuti esteri, dal momento che per alcuni di questi beneficiari la democrazia era stata stabilita e ritenevano che oramai potessero cavarsela da soli.
Il settore alternativo ora è molto diviso, non c'è più un "nemico" definito da combattere, sicché, tutti questi diversi gruppi di attivisti agiscono nel raggio dei loro stretti obiettivi e parlano riferendosi a gruppi ristretti.
Tuttavia, per gran parte dell'opinione pubblica, la loro attività è ancora percepita come un tradimento e loro sono percepiti ancora come dei "venduti", "mondialisti" ed "antiserbi" (si pensi per esempio a Sonja Biserko, Natasa Kandic e altri)
Dopo l'uccisione del primo ministro Djindjic, e specialmente dopo che al governo è subentrata la coalizione di Kostunica, queste organizzazioni si sono contraddistinte per la defascistizzazione e decriminalizzazione della Serbia, per favorire un confronto con il passato, per la collaborazione con il tribunale dell'Aia e per sradicare dall'interno delle strutture statali i resti del personale di Milosevic, poiché l'attuale governo non ha né la volontà, né, tanto meno, la determinazione per farlo.
Per quanto concerne i sindacati il loro ruolo è del tutto marginale. Questo è facilmente comprensibile se consideriamo che quel poco di gente occupata che esiste qui è divisa tra un proletariato angosciato dalla lotta quotidiana per la sopravvivenza e quello per certi aspetti "corrotto" che usufruisce di compensi relativamente alti per la perdita dei posti di lavoro.
Per concludere, il cosiddetto "terzo settore" non ha una grande influenza sulla politica globale, ma riesce ad agire, di volta in volta, a seconda delle circostanze.
Qual è l'immaginario circa l'Europa che si ha in Serbia o, più in generale in ex Jugoslavia? Esiste una sorta di "mito" dell'Europa che nasconderebbe un certo complesso di inferiorità, oppure il rapporto con l'Europa risulta essere molto più ambivalente?
In Serbia c'è la volontà di entrare a far parte dell'integrazione europea ed atlantica, ma soltanto se ciò offre garanzie di miglioramento della qualità della vita e se questo non comporta nessuna rinuncia alle abitudini preesistenti e dei preesistenti modi di pensare. Si pensa che l'Europa sia in debito con noi e che non siamo noi a doverci adattare agli standard europei. Il rapporto con L'Europa è un po' comico: aumenta di giorno in giorno la tendenza al tradizionalismo, si idealizza l'orgoglio nazionale etc.
L'attività della chiesa ortodossa è significativa ed è retrograda, specialmente negli ultimi tempi. Tutto questo grazie, soprattutto, all'influenza di Kostunica.
Recentemente, infatti, comincia a prendere piede una specie di cleronazionalismo ortodosso che ha molta influenza sulla politica, sulla cultura e sull'educazione. Ma per la gente questa via è la più facile: il sistema ereditato lascia un discreto margine per "cavarsela" nella vita quotidiana, e, per quanto riguarda il livello di aspirazioni nello stile di vita, pur essendo notevolmente peggiorato dal punto di vista economico negli ultimi quindici anni, la gente si accontenta comunque del minimo.
Si tratta di una sindrome collettiva di inferiorità e di prepotenza nazionale che blocca il processo di consapevolezza nella maggior parte delle persone.
Qual è il rapporto tra "nuovi arrivati" (rifugiati, profughi, contadini e gente che arriva dal villaggio alla città) e cittadini?
Come ho gia detto, in Serbia sono arrivati numerosi rifugiati provenienti da zone della ex Jugoslavia abitate dalle comunità serbe. Certo, fra tutta questa gente di diverse nazionalità, massacrata, impoverita e cacciata via, le vittime più colpite della politica imperialista ed espansionista di Milosevic sono stati i Serbi che vivevano nei territori che interessavano il regime di Milosevic (perché quelle erano guerre per i territori e non certo per proteggere la popolazione serba!).
Non esistono dati precisi sull'attuale numero di rifugiati in Serbia, ma si parla di circa 700.000 persone.
La loro situazione è terribile. Da anni, ormai, questa gente vive come se fossero cittadini di seconda classe, quasi senza alcun diritto. Milosevic ha reso libera l'acquisizione della cittadinanza serba solamente quando aveva bisogno del loro voto a scopi elettorali, ma, in realtà, non ha fatto nient'altro per loro.
Successivamente, il Partito Radicale serbo di Vojislav Šešelj ha conquistato la loro fiducia, così che a tutt'oggi rapprentano la parte più consistente dell'elettorato di questo partito di estrema destra.
La "classe dei cittadini", nei confronti dei rifugiati nutre una forte sfiducia, una resistenza ma anche disprezzo. I rifugiati vengono reclutati per lavori in nero e per lavori pesanti, quasi fossero una specie di esercito operaio di riserva che fa concorrenza alla forza lavoro già esistente, causando, in questo modo, un abbassamento del costo della manodopera.
Che rapporto ha il governo e la politica ufficiale verso le minoranze? Si tiene conto, specialmente nei programmi scolastici, delle minoranze culturali e linguistiche? Che rapporto hanno i media verso queste minoranze?
Un terzo della popolazione in Serbia non sono Serbi nel senso etnico della parola, qualsiasi cosa questo possa significare. Anche se nella Costituzione di Milosevic, tuttora in vigore, la Serbia è definita come "lo stato dei cittadini della Serbia" e non come "lo stato del popolo serbo", purtroppo ancora oggi su questa questione non c'è una consapevolezza diffusa.
Dopo tutto quello che è successo qui negli ultimi 15 anni e, considerando il modo in cui si pensava, è ancora dominante l'opinione risalente al diciannovesimo secolo, secondo la quale la Serbia dovrebbe essere definita come uno stato nazionale (modello tedesco). Tutto questo è in controtendenza rispetto a ciò che succede in Europa dove, invece, viene adottato il modello francese.
In senso giuridico, la posizione delle minoranze etniche è regolata secondo i moderni standard europei, ma in realtà siamo ancora lontani dalla "normalità". C'è molta diffidenza nei confronti delle minoranze etniche, gli stereotipi sono ancora molto vivi, in modo particolare quando si tratta di Albanesi, Ungheresi, Croati e Bosniaci.
Dopo tutte le terribili vicende belliche, non sono rari incidenti causati dal nazionalismo, particolarmente nella zona della Vojvodina (Serbi contro Ungheresi e Croati), e nelle zone dove si sono stanziati molti profughi e, di conseguenza, proprio lì si registra una grande influenza del Partito radicale Serbo.
Soltanto quando i "Serbi" (nel senso etnico) saranno capaci di accettare il fatto che un "Serbo" può essere anche un nero, nel senso della cittadinanza e non come dato etnico, possiamo sperare in un miglioramento generale della situazione in questo ambito.
E' ancora valido oggi il paradigma "palanka/grad", il rapporto tra città e campagna del filosofo Radomir Konstantinovic? La "palanka" sta cambiando volto?
Sì, in questo senso qualcosa sta cambiando, come dicevo prima, soprattutto grazie ai movimenti alternativi che si sono diffusi nella provincia serba. Tuttavia la mentalità della "palanka" non deve necessariamente essere legata al concetto di "palanka". Questa mentalità si sviluppa e agisce anche nelle grandi città, grazie ad un processo di "provincializzazione" avvenuto negli ultimi quindici anni, e a causa di una cultura populista che veniva creata ad hoc e che si cerca ancora oggi di tenere in vita (mi riferisco sopratutto ad alcune emittenti televisive).
Questo fenomeno può essere combattuto solo attraverso un progetto politico culturale e didattico, ed anche attraverso le attività del settore civile. La condizione base perché tutto questo si verifichi è un relativo benessere materiale in grado di evitare il risentimento di coloro che vivono nella campagna nei confronti di chi vive in città.
Qual è oggi il ruolo e la posizione degli intellettuali all'interno dell'Altra Serbia? Che dialogo si è stabilito tra gli intellettuali (scrittori, filosofi, artisti) e movimenti cosiddetti dal basso (le oasi di cui si parlava prima)?
Questa è la domanda più difficile e non c'è una semplice risposta. Cosa è oggi l' "Altra Serbia"?
L' "Altra Serbia" era un'annebbiata proiezione dei dissidenti ai tempi di Milosevic, dunque tutto ciò che non era la "Loro Serbia". Di tutto ciò, poco è stato realizzato, e anche quel poco si è fermato con l'uccisione di Djindjic. La maggior parte dei sostenitori dell'idea dell' "Altra Serbia" oggi è delusa o ha partecipato ad una specie di migrazione interna. Altri, invece, sono addirittura emigrati dal paese. (E' interessante notare che "la fuga dei cervelli" continua ancora oggi, dopo quattro anni dalla caduta di Milosevic).
Molte speranze sono andate distrutte. Gli intellettuali che sostenevano la politica di Milosevic si sono ritirati per un po' dopo il 5 ottobre, oppure si sono dislocati nell' "Altra Serbia", ma ultimamente si riaffacciano e di nuovo supportano la "Prima (Loro) Serbia".
La critica politica da parte degli intellettuali non giunge alla maggior parte della gente: l'intellighenzia critica è veramente chiusa nelle oasi di cui parlavamo prima.
Cosa dire del fatto che, a capo del dipartimento di filosofia della Facoltà di Filosofia, che si è distinta per l'opposizione mostrata nei confronti della tendenza al tradizionalismo, è stato messo un prete ortodosso, rettore della Facoltà di Teologia, il quale dalla lista della letteratura per studenti ha eliminato la filosofia razionalista, i filosofi illuministi etc?
Per approfondire vedi anche:
Profughi e sfollati in Serbia: storie di vita quotidiana
Intervista con Teofil Pancic, editorialista di Vreme
Parla Stasa Zajovic, Donna in nero di Belgrado
La società civile serba si divide sui crimini di guerra
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