Radina Vučetić (foto archivio privato)

Radina Vučetić (foto archivio privato)

Prendendo spunto dal 9 maggio, giornata che commemora la liberazione dal nazifascismo, e dal recente insediamento del nuovo governo serbo, la storica Radina Vučetić riflette sull’eredità antifascista e sulla deriva autoritaria in Serbia e in Europa

22/05/2024 -  Radmila Stanković

(Originariamente pubblicato da Radar , il 10 maggio 2024)

Quanta volontà c’è oggi tra i paesi usciti vincitori dalla Seconda guerra mondiale di preservare l’eredità antifascista?

Il mondo è cambiato in modo significativo negli ultimi dieci o vent’anni, tanto che i vincitori della Seconda guerra mondiale si rapportano all’eredità antifascista ciascuno a modo suo. Se alcuni paesi promuovono attivamente valori antifascisti, cercando di preservarli, altri si stanno allontanando sempre più da quei principi. C’è poi la Russia che, pur essendo stata uno dei principali custodi della tradizione antifascista, oggi – con l’aggressione all’Ucraina e con le affermazioni di Vladimir Putin, Sergej Lavrov e Maria Zakharova – sostanzialmente calpesta l’idea alla base della lotta al fascismo.

Quali sono oggi i principali nemici dell’antifascismo?

In Europa, a minacciare maggiormente l’idea antifascista sono crescente populismo, estremismo e derive autoritarie. Queste tendenze portano alla relativizzazione dei fatti storici, alla negazione dei crimini del fascismo e alla riabilitazione delle idee e dei leader fascisti. Inoltre, le recrudescenze nazionaliste e la xenofobia alimentano l’odio nei confronti dell’altro, quindi sono in contrasto con i valori fondanti dell’antifascismo. Purtroppo, noi abbiamo fatto da apripista a queste tendenze negative a livello europeo, e oggi nel nostro paese questo tremendo virus continua a proliferare, pur mutando costantemente.

Intanto assistiamo all’ascesa della destra e al revisionismo storico con cui si cerca di cancellare il passato antifascista. È come se ci vergognassimo dell’antifascismo…

Invece di esserne orgogliosi, i cittadini, o meglio l’attuale leadership serba rinnega e si vergogna dell’antifascismo. Oggi in Serbia si assiste a quello che il sociologo Todor Kuljić chiama anti-antifascismo , quindi ad un anticomunismo da operetta – perché le menti superficiali osservano l’antifascismo esclusivamente in relazione al comunismo – in cui il governo neoradicale e gli esponenti della destra, sia tra le fila della maggioranza che dell’opposizione, esaltano i fascisti, i collaborazionisti e i criminali di guerra, costringendo alla clandestinità, come accaduto anche negli anni Trenta, tutti quelli che custodiscono e celebrano la tradizione antifascista. L’indicatore migliore (ossia peggiore) di questa nuova cultura della memoria è il tentativo di riabilitare Milan Nedić [premier del governo fantoccio instaurato dai nazisti durante l'occupazione della Serbia durante la Seconda guerra mondiale n.d.r. ] e di cancellare tutto ciò che ha a che fare con l’antifascismo, dalla tendenza a cambiare i nomi delle strade alla propensione a commemorare in modo ambiguo, o addirittura a non commemorare affatto il Giorno della liberazione di Belgrado e il Giorno della vittoria sul nazifascismo.

Come siamo giunti a questo punto?

L’attuale situazione è in parte conseguenza del fatto che ci siamo lasciati governare dai peggiori: nazionalisti, negazionisti dei crimini di guerra e dei genocidi, quelli che sono usciti sconfitti dalle guerre da loro stessi provocate, quelli che continuano a sfruttare ogni occasione per incitare all’odio verso gli albanesi, i croati, gli sloveni, ma anche contro chi la pensa diversamente in Serbia. Non c’è da stupirsi quindi se questi perdenti, questa feccia fascista ammira Milan Nedić e indulge in fantasie sulla “Grande Serbia”, che ora, seguendo l’esempio russo chiamano “Mondo serbo”.

La Serbia non ha ancora fatto i conti con il passato, come dimostra anche la formazione del nuovo governo…

Il nuovo governo è composto proprio dai peggiori ed è – oserei affermarlo – il governo più pericoloso che abbiamo avuto dalla reintroduzione del multipartitismo. Due membri del governo, uno dei quali è anche vicepremier, sono sottoposti a sanzioni statunitensi, e la maggior parte dei ministri, originariamente provenienti dal Partito radicale serbo (SRS), promuove l’idea del “Mondo serbo”.

Allo stesso tempo, il nuovo esecutivo dimostra che la Serbia si è distanziata dai valori europei tanto che ormai è diventata una provincia russa, dove gli unici veri valori sono quelli nazionalisti e tradizionali e dove la concezione della donna, del matrimonio e della famiglia è molto vicina alla tesi di Milan Nedić sulla “preservazione della sostanza biologica”. Manca solo Vojislav Šešelj per completare il peggiore governo del peggiore decennio della nostra storia recente.

Secondo lei, dove ci porterà l’attuale governo?

Tutte queste dinamiche, insieme all’insistente negazione dei crimini di guerra, non fanno che avvicinarci sempre più a nuovo conflitti e crimini. Il giorno dell’insediamento del nuovo governo, il neo eletto premier ha scritto sul suo profilo Twitter: “La prima e unica cosa che chiedo è la lealtà alla patria! Per creare una Serbia eterna! Unica! La nostra madre e patria! È a lei che dobbiamo giurare fedeltà! È il nostro sogno e la nostra fede! L’unica eterna patria serba! Che la nostra patria viva per sempre! Gloria a Dio!”.

La prima e unica richiesta è la lealtà alla patria, anziché il rispetto dei diritti umani e la democrazia. Tutto questo rimanda alla recente distruzione di un murales dedicato a Dositej Obradović con le sue parole: “Libri, fratelli miei libri, non campane e campanelle”. Con questo modo di pensare, e con l'appoggio che la Chiesa ortodossa serba e il patriarca forniscono a simili discorsi e idee, si arriva alla situazione in cui le campane spesso vengono accompagnate dai proiettili.

Come l’attuale leadership serba riesce a conciliare il suo anti-antifascismo con l’amore per la Russia?

Grazie alla condiscendenza di quei cittadini a cui piace farsi sottomettere volontariamente, tanto che sono ad un passo dalla schiavitù volontaria. Considerando l’importanza che la vittoria nella Seconda guerra mondiale riveste per la Russia, soprattutto per la Russia di Putin, e gli sforzi profusi dalla Russia a partire dal 2014 per “spingere” la Serbia a ricordare il proprio antifascismo, Belgrado ha dovuto trovare un modo per commemorare il Giorno della vittoria sul nazifascismo. Qui emerge un aspetto curioso, una trasformazione non solo della cultura della memoria, ma anche della topografia delle città, con la costruzione di nuovi monumenti e l’inaugurazione di nuovi luoghi della memoria. La leadership serba ha cercato a lungo – come emerso anche durante quella visita di Putin in Serbia in occasione del Giorno della liberazione di Belgrado – di minimizzare il significato della vittoria sul nazifascismo, incorporando nella sua celebrazione anche la memoria dalla Prima guerra mondiale.

A proposito, ricordiamo un discorso dell’attuale ministro della Cultura…

Nikola Selaković ha ribadito la sua posizione nel 2023 quando, in occasione dell’inaugurazione del monumento agli eroi russi e serbi nel parco di Kalemegdan, ha dichiarato che per noi la Prima guerra mondiale ha rappresentato quello che per i russi ha rappresentato la Seconda guerra mondiale. Si è trattato dell’ennesimo tentativo di cancellare la Seconda guerra mondiale, in particolare quella sua parte vittoriosa e antifascista, dalla cultura della memoria. Anziché l’antifascismo, l’attuale leadership serba coltiva la tradizione del fascismo e del collaborazionismo.

Sotto evidenti pressioni russe, sono stati compiuti alcuni passi, più o meno nascosti dai riflettori, che la dicono lunga sull’atteggiamento della Serbia verso l’antifascismo, ma anche verso i russi. I più curiosi sono quei monumenti seminascosti, come quello in Piazza della Repubblica [a Belgrado], che pochi cittadini conoscono proprio perché è stato realizzato in modo da essere invisibile. L’obiettivo era di rievocare il monumento ai soldati dell’Armata rossa che si ergeva in quella piazza dal 1944 al 1954. Il nuovo monumento è stato realizzato nel 2019, durante la ristrutturazione della piazza, in occasione del 75mo anniversario della liberazione di Belgrado dall’occupazione nazifascista.

Similmente, nel 2020, all’angolo tra le vie Kralja Milana e Kneza Miloša, dopo un intervento di restauro, è stata inaugurata una targa commemorativa con la scritta: “Provereno min njet” [Verificato senza mine]. Il vero obiettivo della rievocazione di questi due luoghi della memoria è quello di cancellare la lotta partigiana e il ruolo dei partigiani nella liberazione di Belgrado. Allo stesso modo, da anni ormai viene celebrato il Giorno della vittoria sul nazismo, con la marcia del Reggimento immortale, le immagini di Putin e le magliette con la lettera Z.

In questa rappresentazione dei meritevoli e dei vittoriosi non trova però posto l’Ucraina, nonostante tra i membri dell’Armata rossa che parteciparono alla liberazione di Belgrado ci fossero anche molti ucraini. Fondendo in questo modo il Giorno della liberazione di Belgrado e il Giorno della vittoria sul nazismo si cerca di cancellare il ruolo e l’importanza del nostro antifascismo, i partigiani restano completamente invisibili, mentre il merito della vittoria viene attribuito esclusivamente ai russi. Questo sostanziale tradimento di sé e dei propri valori rimarrà negli annali dell’autoumiliazione di un popolo.

Se osserviamo gli ultimi decenni, oggi la società serba è più divisa che mai. Il partito di governo e il presidente della Repubblica, come anche i loro media, fanno una netta distinzione tra i propri sostenitori e gli oppositori, considerando questi ultimi anche nemici dello stato. Quanto sono pericolose queste dinamiche?

I regimi autoritari e totalitari funzionano al meglio quando indirizzano tutta la loro rabbia verso i nemici immaginari. Basti pensare ai nemici inventati dal regime nazista e dal sistema comunista sovietico per capire che anche noi assistiamo ai due minuti d’odio orwelliani, tanto che non riusciamo più a concentrarci sulla nostra vita, dalle più banali cose quotidiane alla questione essenziale dei diritti umani e di tutto ciò che ci viene negato.

Le divisioni all’interno di una società non sono necessariamente un fenomeno negativo, possono essere anche una fonte di pluralismo su cui si fonda la democrazia. Da queste parti le divisioni ci sono sempre state, manca però il pluralismo. Le nostre divisioni hanno spesso portato anche a stermini, senza “cavalleria” e senza alcuna regola. Nella lotta tra i karađorđevci e gli obrenovićevci [sostenitori della dinastia dei Karađorđević e quelli della dinastia degli Obrenović] le sciabole sono state utilizzate nel più brutale dei modi. Le teste volavano anche nella lotta tra i sostenitori di Milošević e quelli di Stambolić. Anche le divisioni tra i tifosi della Stella Rossa e quelli del Partizan mietono vittime. Temo che la retorica incendiaria dei neoradicali, pregna d’odio, possa provocare ulteriori tragedie.

Abbiamo presto dimenticato, o forse non lo abbiamo mai capito, che la tolleranza – che da noi solitamente viene equiparata alla debolezza – è il principale baluardo del pluralismo. Non c’è pluralismo senza disponibilità ad accettare idee e posizioni diverse. Le divisioni vengono fomentate da chi aspira ad una vittoria assoluta, mentre il pluralismo apre la strada ad una soluzione vantaggiosa per tutti. In un momento, come quello attuale, in cui l’uniformità del pensiero (neo)radicale (insieme alle menti ottuse) ci spinge nuovamente in una voragine senza fondo, di pluralismo, inteso come valore di civiltà, non c’è traccia alcuna, ci sono soltanto polarizzazioni e divisioni fino all’estinzione.

Il populismo, sempre più diffuso e incisivo, a cui si assiste in Serbia, si riscontra anche in altri paesi?

Per quanto riguarda il populismo, purtroppo, seguiamo le tendenze globali. La situazione è drammatica a livello mondiale. In vista delle elezioni per il Parlamento europeo, il Partito della libertà austriaco spera di vincere in Europa e in Austria con la sua retorica populista, russofila ed euroscettica. Stando ai sondaggi, la destra è in testa in Francia e Italia, mentre in Germania l’AfD è attualmente al secondo posto, dato decisamente preoccupante. I populisti sono al potere in Ungheria e Slovacchia, e l’estrema destra ha vinto a sorpresa nei Paesi Bassi, ottenendo buoni risultati anche in Svezia. Se poi Donald Trump dovesse vincere negli Stati Uniti – e l’attuale ondata di populismo non può che avvantaggiarlo – il mondo si troverebbe sull’orlo della catastrofe. Al posto dei proletari che un tempo venivano invitati a unirsi a livello mondiale, oggi a serrare le fila sono i populisti e gli esponenti della destra di tutti paesi.

Tornando alla situazione in Serbia, quali sono i punti in comune tra l’attuale leadership di Belgrado e quella degli anni Novanta?

L'attuale leadership serba è più o meno la stessa degli anni Novanta, mancano solo quelli che nel frattempo sono morti. Credo che, se Slobodan Milošević fosse vivo, la lotta per il potere sarebbe tra lui e Aleksandar Vučić e credo che Milošević ne uscirebbe sconfitto. La nostra decadenza continua e siamo sempre più vicini alla realtà di quei tempi e di quei popoli entrambi sciagurati che hanno visto che al peggio non c’è mai fine.

Se da un lato oggi abbiamo più o meno lo stesso governo degli anni Novanta, dall’altro l’opposizione è molto più debole e – fatto che risulta difficile da accettare – la situazione dei media è di gran lunga peggiore di quella degli anni Novanta. Se pensiamo alle forze e ai leader dell’opposizione di allora – DS, SPO, DSS, Alleanza civica – tra i quali c’erano anche alcuni esponenti di spicco del mondo della scienza, dell’arte, dell’accademia, dell’imprenditoria, non possiamo che essere ulteriormente preoccupati.

Anche nei momenti più bui del regime di Milošević, nei media statali e nel servizio pubblico c’era ancora spazio per l’opposizione. Ricordo tutte le nefandezze mediatiche di Milorad Komarkov, Milijana Baletić, Spomenka Jović, come anche quelle pubblicate nel supplemento del quotidiano Dnevnik, nella rubrica Odjeci i reagovanja, e sulle pagine di Večernje novosti, nefandezze ugualmente disgustose e tossiche come quelle a cui si assiste oggi. Però ricordo anche che ogni telegiornale della RTS dava spazio alle dichiarazioni dell’opposizione, che dovevano essere pubblicate. Oggi invece ci vengono negati tutti i diritti. Se non ci opponiamo con maggiore tenacia, temo che ci attendano tempi ancora peggiori in cui, come nella Russia di Putin, marciremo in carcere per ogni pensiero contrario al dogma ufficiale.

Allora cosa ci possiamo aspettare, anche nell’ottica di quanto accaduto negli anni Novanta?

Penso che ci possiamo aspettare un cataclisma simile a quello avvenuto negli anni Novanta, solo che oggi ci sono meno salvagenti. Da tempo ormai cerco di mettere in guardia sul fatto che la Serbia di oggi assomiglia a quella degli anni Novanta sotto molti punti di vista. E da tempo sento repliche di chi ritiene che non sia possibile trarre simili parallelismo, perché negli anni Novanta c’erano guerre e sanzioni. Io invece continuo ad essere molto pessimista perché, per come stanno le cose adesso, se la situazione non dovesse cambiare in modo significativo – per questo ci vorrebbe un miracolo – non scommetterei che non ci saranno nuove guerre e sanzioni. Considerando la crescente fascistizzazione della società e l’attuale situazione globale, in cui temo abbiamo scelto la parte sbagliata, allontanandoci sempre più dall’Unione europea, ci attende la stessa sfida posta davanti a tutte le persone libere e pensanti con il diffondersi del fascismo e del nazismo negli anni Trenta. La risposta non è il silenzio né l’arretramento, né tanto meno la paura. Ecco perché spesso ricordo il grande Koča Popović e la sua risposta alla sempre più palese ascesa del fascismo: “Dobbiamo combattere”.

 

Radina Vučetić è docente ordinaria presso il Dipartimento di Storia contemporanea ed è direttrice del Centro per gli studi americani presso la Facoltà di Filosofia di Belgrado. Autrice di libri e lavori scientifici interessanti e preziosi, in cui tratta la storia del XX secolo, principalmente nel campo della cultura e della vita quotidiana.


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