Dall'ultimo rapporto della Confederazione internazionale dei sindacati emerge una preoccupante erosione dei diritti e delle tutele dei lavoratori a livello mondiale. Mario Reljanović, giurista e direttore del Centro per il lavoro dignitoso, fa il punto della situazione in Serbia e in Europa
(Originariamente pubblicato sul portale Novosti , il 28 agosto 2023)
Lo scorso 30 giugno la Confederazione internazionale dei sindacati ha presentato la decima edizione del Global Rights Index da cui emerge un preoccupante quadro di erosione dei diritti e delle tutele dei lavoratori a livello mondiale. Il settimanale Novosti ne ha parlato con Mario Reljanović, giurista e direttore del Centro per il lavoro dignitoso , soffermandosi in particolare sulla situazione in Serbia, anche nell’ottica del processo di adesione all’Unione europea.
Nella conclusione di un suo testo recentemente uscito sul portale Peščanik, lei afferma che le autorità serbe non impareranno nulla dall’ultimo Indice globale dei diritti dei lavoratori. Non impareranno niente, oppure sarebbe più opportuno dire che non gli danno alcuna importanza?
La constatazione che le autorità se ne fregano di quello che c’è scritto nel rapporto in questione fornisce una spiegazione molto più precisa dei processi a cui assistiamo. Questo non è il primo e non sarà di certo l’ultimo rapporto a mettere in luce l’erosione dei diritti dei lavoratori in Serbia.
Nella sua relazione dello scorso anno dedicata alla Serbia, il Comitato per i diritti economici, sociali e culturali delle Nazioni Unite ha evidenziato diversi elementi che suggeriscono un allontanamento [della Serbia] dagli standard internazionali in materia di lavoro. Alcune recenti proposte legislative avanzate dallo stato hanno suscitato forti reazioni di diversi attori internazionali, compresa una lettera [inviata al governo serbo] da un gruppo di relatori speciali dell’Onu riguardo alla vergognosa proposta di legge sul lavoro stagionale. È intervenuto anche il Parlamento europeo condannando quanto accaduto nella fabbrica Linglong.
In un altro paese questi discreti segnali diplomatici avrebbero portato ad un serio ripensamento dei processi in corso. In Serbia invece non vi è alcuna volontà politica di intraprendere tale passo e si continua a seguire fedelmente quella corrente rigida finalizzata esclusivamente ad attrarre i cosiddetti “investitori stranieri”. Questo comporta diverse conseguenze, compresa la presenza di una forza lavoro estremamente sottopagata e priva di qualsiasi tutela. Nessuna forza esterna potrà invertire “la corsa al ribasso” intrapresa dalla Serbia, che ha praticamente smesso di adeguarsi alle norme europee [in materia di lavoro], come invece previsto dal capitolo 19 dei negoziati di adesione all’UE.
Sarebbe interessante fare un paragone tra la situazione in Serbia e quella in Croazia. Nell’ultimo indice dei diritti dei lavoratori la Serbia si trova nel quarto gruppo dei paesi, quindi tra i fanalini di coda per quanto riguarda il rispetto dei diritti collettivi dei lavoratori, mentre la Croazia è nel secondo gruppo…
Il fatto che la Croazia sia stata inclusa nel secondo gruppo è certamente una bella sorpresa, ma anche un indizio che conferma che i paesi della regione, pur occupando una posizione tutt’altro che invidiabile nel mercato globale dei capitali, possono garantire una migliore tutela e l'esercizio dei diritti dei lavoratori.
Le differenze tra Croazia e Serbia sono legate a due fattori. Il primo riguarda l’adeguamento all’acquis comunitario. Nonostante in Europa si assista ad una palese ascesa della destra – che inevitabilmente inciderà sulle prossime elezioni per il Parlamento europeo – gli standard raggiunti in materia di lavoro [a livello UE] sono molto più alti di quelli che vigono in Serbia. La Croazia rispetta, almeno formalmente, i diritti dei lavoratori in modo coerente agli standard internazionali ed europei. In Serbia invece non vengono rispettati nemmeno gli standard minimi [di tutela dei lavoratori]. Ad esempio, molti lavoratori sono stati privati della libertà di associazione sindacale e del diritto alla contrattazione collettiva, e questa tendenza è destinata a proseguire. Il diritto di sciopero è regolamentato da una legge scritta quasi trent’anni fa, pensata per l’allora Federazione di Jugoslavia [composta da Serbia e Montenegro], una legge che oggi viene applicata in modo tale da rendere illegittimo quasi ogni sciopero avviato dai lavoratori.
Così arriviamo al secondo fattore che riguarda per l’appunto l’applicazione della normativa vigente. [Dal rapporto stilato dalla Confederazione internazionale dei sindacati] emerge chiaramente che la situazione in Serbia è di gran lunga peggiore di quella in Croazia. Va ricordato che la classifica si basa sui dati raccolti sul campo dai sindacati locali, focalizzandosi sui diritti collettivi dei lavoratori. Osservando i dati relativi alla Serbia, anche limitandosi a quei casi che hanno suscitato una certa eco mediatica, vediamo che solo pochi scioperi sono andati a buon fine, che nel settore privato ormai non esiste più una vera contrattazione collettiva (mentre nel settore pubblico avviene per automatismo e quindi non porta a risultati particolarmente favorevoli per i lavoratori) e che la soppressione dei sindacati da parte dei datori di lavoro è diventata una prassi quotidiana. Vediamo anche che lo stato contribuisce a questa situazione. Ad esempio, le scandalose modifiche alla legge sul lavoro del 2014 hanno portato ad un’irreparabile erosione della contrattazione collettiva.
Mi preme ricordare che l’unica persona arrestata dopo lo scoppio dello scandalo a Yura [fabbrica di cavi aperta a Leskovac dall’azienda sudcoreana Yura Corporation] nel 2020, quando la fabbrica era diventata un focolaio di coronavirus, era stato il presidente di un sindacato intervenuto durante una manifestazione di protesta organizzata dagli operai. Successivamente, non avendo violato alcuna legge, il sindacalista è stato rilasciato, ma nel frattempo nessun membro della dirigenza della fabbrica è stato interrogato sulla base dell’accusa di non aver rispettato le misure di protezione per il contenimento dell’epidemia. L’arresto del presidente del sindacato va interpretato come un atto intimidatorio, un metodo repressivo finalizzato a soffocare il malcontento dei lavoratori. Analizzando altri casi analoghi registrati negli ultimi anni in Serbia, emerge chiaramente che si tratta di violazioni sistematiche dei diritti dei lavoratori incoraggiate dallo stato, ed è proprio questa la caratteristica principale dei paesi della quarta [e penultima] categoria nell’ultimo indice sullo stato dei diritti dei lavoratori nel mondo.
Ritiene che un’eventuale adesione dei paesi dei Balcani occidentali all’UE possa contribuire a migliorare la situazione sul piano dei diritti dei lavoratori, aiutando questi paesi a ottenere risultati simili a quelli raggiunti dalla Croazia?
Ciò che conta di più nel processo di integrazione europea è l’adozione di alcuni standard generali. Quindi, la cosa più importante non è fissare la data dell’ingresso di un paese nell’UE, bensì incoraggiare questo paese ad adeguarsi alle norme e alle politiche europee. Questa è la strada che porta allo stato di diritto, ad una magistratura indipendente e al rafforzamento delle istituzioni.
Per quanto riguarda i diritti dei lavoratori, possiamo fare un confronto tra Ungheria e Austria, due paesi vicini tra di loro sia dal punto di vista geografico che storico. Non vi è dubbio che l’Austria ha posto una maggiore enfasi sulla tutela dei diritti dei lavoratori e, di conseguenza, ha compiuto maggiori progressi in questo ambito. L’Ungheria invece si è mossa nella direzione di una progressiva erosione dei diritti dei lavoratori e, al pari della Serbia, ha intrapreso una sorta di “corsa al ribasso”. Quindi, è chiaro che le politiche in materia di investimenti e occupazione, così come la politica fiscale, ma anche gli standard dello stato di diritto e della tutela dei lavoratori rivestono grande rilevanza per lo stato di salute di un paese.
[Quanto ai paesi dei Balcani occidentali] l’allineamento agli standard dell’UE durante il processo di adesione sicuramente può contribuire molto a migliorare la situazione, ma è solo uno dei passi da compiere contemporaneamente a tanti altri: occorre puntare sul potenziale economico interno anziché sui controversi “investitori stranieri”, cambiare completamente le politiche fiscali e redistributive, ridurre drasticamente la corruzione e ripristinare l’effettiva indipendenza delle istituzioni dello stato.
In Serbia gli investitori stranieri – anche quelli che vengono dai paesi con un alto grado di rispetto dei diritti dei lavoratori e dove i sindacati giocano un ruolo importante – raramente si impegnano a replicare le esperienze virtuose maturate dai loro paesi di origine. Secondo lei, perché questa tendenza è ormai diventata una prassi comune? C’entra anche il fatto che le organizzazioni sindacali locali sono deboli e disunite, se non addirittura inesistenti?
Certo che i sindacati locali non contribuiscono molto a invertire questa tendenza. Non bisogna però generalizzare, poiché in Serbia esistono anche alcune realtà sindacali agili che riescono a raggiungere risultati assai soddisfacenti. Ci sono poi alcuni casi in cui, nonostante l’inerzia di una grande organizzazione sindacale, alcune delle sue sezioni locali funzionano abbastanza bene.
Tuttavia, osservando il quadro complessivo, emerge con chiarezza che i sindacati serbi non hanno la capacità di opporsi in modo efficace ai datori di lavoro senza scrupoli, soprattutto a quelli che godono del sostegno dallo stato. E il comportamento dei datori di lavoro senza scrupoli è conseguenza dell’attuale politica di attrazione degli investimenti stranieri. Al fine di garantire il maggior numero possibile di posti di lavoro, lo stato continua a promuovere condizioni molto vantaggiose per gli investitori stranieri: diverse agevolazioni, in particolare fiscali; sovvenzioni per ogni nuovo posto di lavoro, la possibilità di utilizzare le infrastrutture pubbliche, etc. Fra “i benefici” che lo stato offre agli investitori stranieri vi è anche una forza lavoro a basso costo, nonché la flessibilità nell’applicazione delle leggi. Così un imprenditore straniero che decide di investire in Serbia non ha nulla da temere, in un certo senso gli viene garantita “l’extraterritorialità”, ossia un sistema di controllo lacunoso e poco efficace.
Questa problematica non riguarda solo il diritto del lavoro. La Serbia è costretta a fare i conti con i problemi legati ai grandi inquinatori. Basti pensare alla fabbrica Linglong e al modo in cui è stata costruita. La politica perseguita dalla leadership serba riesce sì ad attrarre molti investitori stranieri, il cui unico obiettivo però è quello di generare il massimo profitto durante il periodo di godimento delle agevolazioni offerte dallo stato, poi al termine di questo periodo lasciano la Serbia. L’esempio più emblematico è quello della fabbrica dell’azienda italiana Geox [aperta nel 2016 a Vranje, nel sud della Serbia]. Questa fabbrica, dove è stata documentata tutta una serie di violazioni della normativa in materia di lavoro, ha chiuso i battenti subito dopo la scadenza del periodo di sovvenzioni.
Affinché questa politica “impossibile” continui a dare i suoi frutti, permettendo così ai suoi fautori di rimanere nella corsa al ribasso, occorre impegnarsi costantemente per attrarre nuovi investitori. E siccome questi ultimi sono sempre meno, lo stato offre condizioni sempre più favorevoli per attirarli. Trattandosi però di una strategia finanziaria molto impegnativa, per poter portarla avanti lo stato è costretto a indebitarsi e a spendere risorse originariamente allocate sotto altre voci di bilancio, e la prima vittima è il welfare state. Così siamo giunti ad una situazione assurda in cui lo stato investe in chi è già ricco, prendendo dai più poveri. I ricchi poi pagano tasse minime (o non le pagano affatto), continuando – in modo del tutto lecito – a portare fuori dalla Serbia il surplus generato. Raramente scelgono di reinvestire in Serbia, figuriamoci di assumere un atteggiamento socialmente responsabile, e magari sostenere la comunità locale. Per questo i cittadini serbi tendono a paragonare la Serbia al “paese di Superciuk”. Ovviamente, non bisogna mettere sullo stesso piano tutte le aziende straniere che vengono in Serbia poiché ci sono anche alcuni esempi di prassi virtuose, le quali però non sono mai al centro delle politiche statali.
Nel suo testo pubblicato sul portale Peščanik, lei cita l’Italia come un esempio virtuoso per quanto riguarda il rispetto dei diritti dei lavoratori. Dall’esperienza con le aziende italiane in Serbia emerge invece un quadro ben diverso...
È vero, ho già citato l’esempio dell’azienda Geox. Nemmeno la Fiat ha fatto una buona impressione, anche se durante la sua permanenza in Serbia ha sempre garantito condizioni di lavoro ben al di sopra della media nazionale.
Nel recente rapporto della Confederazione internazionale dei sindacati l’Italia è stata inclusa nel gruppo dei paesi dove praticamente non si registrano violazioni dei diritti dei lavoratori. Viene però da chiedersi se tale valutazione sia in parte conseguenza del fatto che i datori di lavoro italiani hanno esternalizzato gran parte delle loro attività produttive in paesi dove gli standard dei diritti dei lavoratori sono molto più bassi.
Stando al rapporto in questione, la Pošta Srbije [Poste serbe] è una delle peggiori aziende al mondo per quanto riguarda il rispetto dei diritti collettivi dei lavoratori. Ritiene che questo fatto sia paradigmatico dell’atteggiamento dello stato serbo nei confronti dei diritti dei lavoratori?
Credo che la Pošta sia stata inclusa in quella lista a causa di un gran numero di valutazioni negative fornite dai sindacati. La situazione in questa azienda pubblica è ben lungi dall’essere rosea. Mi sembra però esagerato definirla una delle peggiori aziende al mondo dal punto di vista del rispetto dei diritti collettivi dei lavoratori.
D'altra parte, il fatto che un’azienda pubblica serba sia finita in fondo a quella classifica è importante per vari motivi. Primo, permette di scardinare lo stereotipo, molto diffuso in Serbia, secondo cui i dipendenti pubblici sono avvantaggiati [rispetto ai lavoratori del settore privato]. Secondo, dalla valutazione fornita dalla CSI emerge il vero status giuridico delle aziende pubbliche serbe che non stanno “né in cielo né in terra”. Quando si parla dei diritti dei lavoratori o del modo di operare delle aziende pubbliche, i funzionari starali di solito affermano che, essendo passate al mercato libero, queste aziende sfuggono al controllo dello stato. Quando poi le aziende in questione con il loro pessimo operato generano ingenti perdite, lo stato le aiuta con i soldi sottratti al bilancio, ossia alle tasche dei cittadini.
In Serbia le aziende pubbliche ormai sono preda dei partiti al potere e, essendo esentate dalle limitazioni alle assunzioni nella pubblica amministrazione, permettono di assumere persone esclusivamente sulla base della loro appartenenza a determinati partiti politici. La Pošta è un buon esempio di privatizzazione, ossia di lottizzazione dei beni pubblici e del fatto che i diritti dei lavoratori delle aziende pubbliche dipendono dai quadri di partito, i quali sono solitamente del tutto incompetenti per gestire un’azienda.
Anche la Gran Bretagna e gli Stati Uniti si collocano in fondo alla classifica per rispetto dei diritti dei lavoratori. Questi due paesi figurano infatti nella stessa categoria in cui è stata inserita anche la Serbia. Come possiamo interpretare questo fatto, considerando l’importanza che la Gran Bretagna e gli USA rivestono per il cosiddetto mondo occidentale?
È vero che assistiamo ad una “liberalizzazione”, o meglio una “flessibilizzazione” dei diritti dei lavoratori ispirata al modello statunitense, ma gli USA sono diventati un vero e proprio modello di capitalismo neoliberista non per via di una presunta “americanizzazione del mondo”, bensì per il semplice fatto che il modello statunitense permette di massimizzare i profitti a scapito dei lavoratori.
Tuttavia, questa tendenza può essere invertita. Mi sembra che, nonostante la palese riduzione dei diritti dei lavoratori in tutta Europa, molti paesi europei si stiano dimostrando immuni da nuove ondate di erosione dei diritti. Accettare la tendenza a ridurre costantemente i diritti dei lavoratori equivarrebbe a uccidere le funzioni sociali dello stato, e questo è semplicemente inconcepibile per la maggior parte dei paesi europei. Certo, i paesi periferici resteranno fortemente esposti alla flessibilizzazione del lavoro, ma solo perché i loro governi hanno scelto di perseguire la desolante politica della “corsa al ribasso”.
Anche altri paesi avanzati – come Francia, Olanda, Belgio, Spagna, Canada – hanno perso diverse posizioni nella classifica sullo stato dei diritti dei lavoratori…
La regressione di questi paesi va osservata tenendo a mente le posizioni occupate negli scorsi anni. La Francia ha perso posizioni innanzitutto per via dell’atteggiamento violento dello stato nei confronti dei lavoratori che hanno protestato contro alcune modifiche alla normativa in materia di lavoro. Le critiche rivolte alla Francia non significano però che in questo paese non esista più il diritto del lavoro, tutt’altro.
Il rapporto è focalizzato sui diritti collettivi dei lavoratori, in primis sul diritto di associazione e di azione sindacale, un diritto sotto attacco in tutto il mondo. La situazione generale è molto preoccupante. Osservando le tendenze degli ultimi dieci anni, è chiaro che le violazioni dei diritti dei lavoratori sono in costante aumento. Poi vi è il paradosso della corsa al ribasso, che sembra essere una corsa senza fine. L’umiliazione dei lavoratori non conosce limiti. Un potere che decide di abbandonare gli standard internazionali e di ignorare i tentativi delle istituzioni internazionali a spiegare che la riduzione dei diritti non è la strada giusta da intraprendere, è capace di rendere le condizioni di lavoro davvero insopportabili. Tali politiche però non possono essere portate avanti a lungo non solo perché sono troppo onerose per lo stato, ma anche perché rischiano di provocare disordini sociali e tensioni insostenibili all’interno di una società stratificata dove i poveri e i poveri assoluti iniziano a prevalere.
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