La zattera della Medusa di T. Géricault (Louvre)

La zattera della Medusa di T. Géricault (Louvre)

Ingiusta, scandalosa, politicamente motivata. L’assoluzione di Gotovina e Markač da parte del Tribunale penale internazionale provoca l’indignazione della leadership serba e di gran parte dell’opinione pubblica del paese

20/11/2012 -  Federico Sicurella Belgrado

“Questa ingiustizia ci colpisce come una seconda tempesta, ancora più grave della prima”, dice Milojko Budimir, rappresentante delle associazioni dei rifugiati serbi di Croazia, a proposito della sentenza di assoluzione di Ante Gotovina e Mladen Markač.

“Tempesta” (Oluja) è il nome dell’operazione militare con cui nell’estate del 1995 l’esercito croato riprendeva possesso delle Krajine, le due regioni (in Dalmazia e in Slavonia) a maggioranza serba che nel 1991 avevano dichiarato l’indipendenza dalla Croazia. L’offensiva causò la morte di varie centinaia di persone, sia soldati che civili, e costrinse la quasi totalità della popolazione serba (tra le 150.000 e le 200.000 persone) a lasciare le proprie abitazioni per rifugiarsi oltre confine. All’epoca l’inviato speciale dell’Unione Europea Carl Bildt la definì “la più efficiente pulizia etnica che abbiamo visto nei Balcani”.

I maltrattamenti, le uccisioni e le deportazioni di civili serbi avvenute durante l’operazione Tempesta costituiscono crimini contro l’umanità e violazioni delle convenzioni di guerra. Lo aveva stabilito ad aprile dell’anno scorso il Tribunale penale internazionale dell’Aja (TPI), condannando in primo grado i comandanti croati Gotovina e Markač a 24 e 18 anni di carcere in quanto responsabili di quelle atrocità. La sentenza d’appello di venerdì scorso, tuttavia, ha inaspettatamente ribaltato il giudizio precedente, assolvendo i due imputati e negando l’esistenza di una “impresa criminale congiunta” mirata all’espulsione dei residenti serbi delle Krajine.

In Serbia, la reazione alla sentenza è stata pressoché unanime: critiche severe sono state espresse da tutti i principali leader politici, da esponenti del settore non-governativo, da vari analisti e - stando ai sondaggi di strada - da ampi strati della cittadinanza. In questo senso, la sentenza è riuscita nell’ardua impresa di mettere d’accordo le “due Serbie”: quella nazionalista, avversa alle ingerenze della comunità internazionale e da sempre sospettosa dell’imparzialità del TPI, e quella progressista, filo-occidentale e tradizionalmente favorevole al TPI come strumento di giustizia e riconciliazione. “Venerdì è stato un giorno di unificazione per i serbi, e questo non succedeva da molto tempo” nota Vladimir Todorić, direttore del Centro per la nuova politica di Belgrado.

Le reazioni dell’establishment politico

Le critiche più feroci arrivano dai vertici delle istituzioni. Secondo il presidente della repubblica Tomislav Nikolić, poco avvezzo a dichiarazioni concilianti e politicamente corrette, la sentenza di venerdì autorizza la Croazia a “celebrare il più grande pogrom mai avvenuto dopo la Seconda guerra mondiale”. Inoltre, aggiunge Nikolić, se fino a questo momento c’era qualche ragione per credere che il Tribunale dell’Aja fosse qualcosa di più di un tribunale istituito per giudicare esclusivamente il popolo serbo, “quest’ultima sentenza le confuta tutte”. Allineandosi alle posizioni di Nikolić, il primo ministro Ivica Dačić afferma che il TPI non è uno strumento di giustizia perché “svolge funzioni politiche predeterminate”, alludendo ai vantaggi che la sentenza porta al cammino europeo della Croazia.

Il vicepresidente Rasim Ljajić, che è anche a capo del Consiglio nazionale per la collaborazione con il Tribunale dell’Aja, riporta l’amarezza dei membri del governo per una sentenza che “invece che rendere giustizia infligge altro dolore alle vittime e ai loro familiari”, e che “rappresenta uno schiaffo alla giustizia internazionale e al processo di riconciliazione”. Alle parole sono subito seguiti i fatti: il governo serbo ha ridotto la collaborazione con il TPI a un livello puramente tecnico, togliendo dalla lista delle priorità la consegna di documenti rilevanti al Tribunale. Inoltre, è stato deciso che nessun rappresentante del governo parteciperà alla conferenza sull’eredità giuridica del TPI fissata per il 22 novembre a Belgrado, che è stata quindi cancellata.

Le reazioni degli altri leader politici non si discostano molto da quelle dei vertici. L’ex presidente Boris Tadić parla di un “giorno difficile per la giustizia internazionale” e si raccomanda che la Serbia non abbandoni la politica della riconciliazione. Vuk Drašković, presidente del Movimento del rinnovamento serbo, ritiene che non ci siano dubbi in merito alle responsabilità dei generali croati, e che la sentenza di venerdì “legalizza la pulizia etnica commessa a danno dei serbi”.

La reazione più scomposta è quella di Vuk Jeremić, già ministro degli Esteri del governo Tadić e oggi presidente dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, che in un tweet minaccia di punire i “criminali internazionali” (ovvero il TPI) provocando “danni che non si aspettano”. Non contento della mossa maldestra, in un successivo tweet Jeremić traccia un parallelo avventato tra i giudici dell’Aja e la missione Eulex, che sta svolgendo ricerche sul traffico di organi in Kosovo: “Quei signori arriveranno alla conclusione che gli organi ce li siamo espiantati da soli”.

La delusione dell’“altra Serbia”

Il disappunto del settore non-governativo emerge soprattutto dalle parole di Nataša Kandić, direttrice del Centro per il diritto umanitario (FHP), impegnata da anni nella denuncia delle responsabilità dei crimini commessi nelle guerre jugoslave. La Kandić è convinta che l’assoluzione di Gotovina e Markač non abbia reso giustizia né alle vittime né agli imputati, non avendo riconosciuto loro alcuna responsabilità nell’”impresa criminale congiunta” alla base dell’operazione Tempesta. “La sentenza”, prosegue la Kandić, “mette in discussione la prassi stessa del Tribunale, che per 15 anni si è basata proprio sulla nozione di impresa criminale congiunta”. E conclude affermando che i gravi crimini commessi vengono così minimizzati, relegati a semplici incidenti, allontanando ancora di più la possibilità che la giustizia faccia il suo corso. Anche la storica Dubravka Stojanović, nota per le sue posizioni progressiste, lamenta che il Tribunale “non è serio”, e che “ha davvero perso la sua credibilità”.

Una delle riflessioni più acute è probabilmente quella di Dragan Popović, direttore del Policy Center di Belgrado . La sentenza è “vento nelle vele dei nazionalisti”, spiega Popović, e ora si dovranno fare sforzi ancora maggiori per spiegare all’opinione pubblica serba che non si tratta di una cospirazione internazionale. Questo evento allontanerà ulteriormente Serbia e Croazia, le cui relazioni sono già piuttosto tese. E di certo, conclude Popović, le reazioni festose dei vertici croati non contribuiscono né alla riconciliazione né alla normalizzazione dei rapporti tra i due paesi.

L’ultima considerazione di Popović rileva un punto importante: la riconciliazione è un processo ampio e complesso, e il TPI non è l’unico soggetto responsabile della sua riuscita. Altrettanto responsabili sono le élite politiche (e culturali) dei paesi interessati. E nel momento in cui queste sottoscrivono l’impegno a sostenere il processo di riconciliazione (come ha fatto, almeno a parole, la gran parte del mondo politico serbo e di quello croato) esse si assumono una responsabilità importante, che impone prudenza, contegno e dignità. L’atteggiamento euforico di certi politici croati e quello rabbioso di certi politici serbi disattendono questi propositi.


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