Non si parla più di uranio impoverito. Eppure in Afghanistan continua ad essere utilizzato, continuano i casi di morti sospette ta i militari italiani ed in Federazione Jugoslava si attendono i risultati di una ricerca dell'UNEP
In Italia nessuno parla più di uranio impoverito. Come se i rischi ambientali e sulla salute pubblica (compresa quella dei militari italiani in missione nei Balcani e forse tra pochi giorni anche in altri scenari) connessi all'uso di armamenti di questo tipo fossero scomparsi. Ma i problemi causati dall'uranio impoverito non sono volatili come l'attenzione dei media e di conseguenza dell'opinione pubblica. E forse tra alcuni mesi ci si troverà ad affrontare stupiti e scandalizzati una nuova "sindrome dell'Afghanistan". Maurizio Martellini, direttore del Landau Network-Centro Volta, struttura di cooperazione culturale e scientifica che si occupa di disarmo, sicurezza internazionale e questioni ambientali, lo ha già denunciato: anche in Afghanistan si sta facendo uso di proiettili all'uranio impoverito essendo questi i più efficaci per colpire bunker, rifugi e gallerie in profondità nel terreno. Intanto continuano le morti sospette tra i nostri militari. Tragedie personali che si consumano lontano dal "fronte", lontano dalle colline bosniache, lontano dai check point del Kossovo. Nell'intimità di una casa e di una famiglia e senza la forza per perforare il monolitismo dell'informazione che in questi giorni vuole Afghanistan, Talebani e partite di baseball del presidente americano Bush in copertina. Come comunica l'ANSA, due giorni fa, nella sua casa di Ferrara è morto Corrado Di Giacobbe, 24 anni, caporalmaggiore degli alpini malato di Linfoma di Hodgkin che era stato in missione in Bosnia nel 1997 e nel 1998. Solo qualche mese fa - quando furono resi pubblici i primi dati della Commissione Mandelli, da cui emergeva proprio un anomalo eccesso di linfomi di Hodgkin tra i militari italiani che erano stati in Bosnia - Di Giacobbe commentò la notizia con un certo distacco: ''non mi interessa - disse - sapere se e' stata colpa dei proiettili all'uranio, oppure no. Tutto quello che spero e' di guarire presto, il prima possibile''. Nei Balcani la prospettiva sull'uranio impoverito muta. C'è più attenzione poiché quelli sono stati i territori bombardati e forse contaminati. Ecco perché l'attività di esperti internazionali volta ad analizzare il livello di contaminazione dei siti più rischio non passa certo inosservata. Proprio questi giorni un team di esperti dell'UNEP (United Nations Environment Programme) sta esaminando vari siti della Federazione Yugoslava soggetti a bombardamenti durante gli attacchi NATO del 1999. La raccolta di materiale da analizzare dovrebbe terminare entro i primi giorni di novembre. Si effettueranno poi analisi e ricerche in alcuni laboratori italiani e svizzeri. I primi risultati dovrebbero essere resi noti già nel prossimo febbraio. Approfittando della presenza sul campo degli esperti dell'ONU, provenienti da vari Paesi europei, dalla Russia e dagli Stati Uniti, un'ONG di Vranje, sud della Serbia, ha organizzato con loro un incontro pubblico in modo da discutere e riflettere sulle prime impressioni derivanti dal lavoro svolto. Pekka Haavisto, coordinatore del gruppo di ricerca, ha affermato che sino ad ora nessun pericolo di radiazioni era stato riscontrato nell'area di Vranje, Bujanovac e Presevo. Ha poi aggiunto che le mappe fornite dagli esperti locali sono state di gran lunga più utili di quelle meno precise fornite dalla NATO.Le attività di ricerca sono state finanziate dal governo svizzero, da quello italiano e norvegese (Danas, Beta, 29.10, Narodne Novine, 03.11).
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