Vule Žurić è uno dei più brillanti e prolifici scrittori serbi contemporanei. Autore di romanzi, racconti e radiodrammi, critico letterario e columnist per alcuni prestigiosi supplementi culturali, nonché attuale presidente della Società letteraria serba. Nota biografica e intervista
Se il romanzo storico e la narrativa diaristica e memorialistica sono da sempre il terreno più fecondo della produzione letteraria post-jugoslava, da qualche anno si assiste a un nuovo, interessante filone che per certi versi ne è il controcanto sperimentale. Stiamo parlando di una prosa post-postmodernista che sta ai generi tradizionali come un’ars combinatoria e che trova la sua più felice espressione in quel sottile gioco di dissimulazioni che è la decostruzione della Storia.
Gli ingredienti più sapidi di questo mix tra realtà e finzione sono documenti apocrifi, false testimonianze, invenzioni letterarie, ricostruzioni arbitrarie e una vertiginosa giostra di possibilità non contemplate dalle (poco) magnifiche sorti. Il “dramma satirico” in salsa balcanica ha offerto recentemente al lettore italiano rare ma interessanti novità editoriali, tra cui vale la pena ricordare Il cuore della terra (trad. it. H. Kaloper e S. Giancane, Besa, 2012) di Svetislav Basara, una strampalata e gustosissima antibiografia di Friedrich Nietzsche.
È a questo ricco giacimento narrativo che si può senz’altro ricondurre l’ultima produzione letteraria di Vule Žurić, uno dei più brillanti e prolifici scrittori serbi contemporanei. Autore di romanzi, racconti e radiodrammi, critico letterario e columnist per alcuni prestigiosi supplementi culturali, nonché attuale presidente della Società letteraria serba, è un autore che per estro, incisività e varietà stilistica meriterebbe una maggiore attenzione da parte degli editori nostrani. L’unica sua opera sinora tradotta e pubblicata in italiano – peraltro in un numero limitatissimo di copie – è infatti la collezione di argute e sofferte short stories dal titolo Stasera a mezzogiorno (Tagete, 2003).
Dopo otto romanzi è tornato quasi temerariamente alle origini, ovvero al racconto, la forma narrativa che gli è più congeniale e che nell’attuale panorama editoriale (in Serbia, ma non solo) "sta al romanzo come un povero operaio del Sud sta al padrone dell’industria", afferma lo stesso Žurić. È uscita da poco infatti, per i tipi di Laguna, Tajna crvenog zamka [Il segreto del castello rosso], una raccolta che ha per protagonisti alcuni grandi scrittori jugoslavi come Miloš Crnjanski, Ivo Andrić, Bora Stanković, Petar Kočić, Vladimir Nazor – oltre al musicista Šaban Bajramović e all’immancabile Josip Broz Tito. Una divertente carrellata di storie, un beffardo esercizio di trasfigurazioni che si pone sulla scia degli ultimi due romanzi di successo: il “thriller partigiano” Nedelja pacova [I ratti della domenica, 2010, Premio Stevan Sremac] e la Srpska trilogija [Trilogia serba, 2012]. Quest’ultimo – quasi un romanzo d’avanguardia è composto da tre spy stories, scritte apparentemente da tre autori diversi (uno dei quali è croato, ma chissà perché usa l’alfabeto cirillico), che si intrecciano in un dispositivo satirico-distopico, "in un futuro in cui si è persa ogni traccia di memoria a lungo termine", e ricompongono in uno scombinato puzzle frammenti di cultura pop jugoslava.
Il filo rosso che tiene insieme le opere narrative di Žurić è una cinica quanto irresistibile comicità insieme a un linguaggio infarcito di espressioni gergali e slang urbano, e a una costruzione ritmica che somiglia al procedimento sincopato di certe composizioni jazz. Žurić non ha mai del tutto abbandonato la cifra stilistica degli esordi – il dialetto sarajevese disseminato di anglicismi ed espressioni in šatrovački, l’inversione delle sillabe tipica delle gang – né le scene di quotidiana assurdità dei primi racconti pubblicati in Umri muški [Muori da uomo, 1991 – in realtà il titolo è la traduzione serba di Die Hard] e Dvije godine hladnoće [Due anni di freddo, 1995], che si sono imposti sulla scena letteraria serba degli anni novanta con l’etichetta di “realismo sporco”.
La vita come continuo cambio di scena, la guerra come tragico gioco di maschere, l’ipocrisia che riveste ogni identità ufficiale, il gusto per la dissacrazione, il vitalismo eroicomico, l’inganno del passato, la nostalgia del futuro: sono queste le coordinate del suo universo letterario.
Chiacchierare con Vule Žurić è estremamente piacevole, e non soltanto in virtù del suo amore per la buona tavola e il calcio (è tifosissimo della Stella Rossa), ma perché si esprime in un italiano quasi perfetto, eredità di un soggiorno a Pontedera ("la città più brutta nella regione più bella d’Italia") a cavallo tra il 1999 e il 2000 grazie a una borsa di studio del Parlamento internazionale degli Scrittori. Žurić lo ricorda come una decisiva tappa di formazione, il primo periodo della sua vita interamente dedicato alla scrittura senza altri oneri o obblighi dettati dalla sopravvivenza materiale durante il quale fu anche ospite a casa di Antonio Tabucchi, "un uomo di straordinaria curiosità, generosità e malinconia".
Ebbe modo di incontrare studenti e frequentare i circoli ARCI, di conoscere da vicino "una certa sinistra romantica italiana, che sposava la causa dei serbi perché ritenuti i veri custodi della tradizione politica jugoslava. Fu difficile, e in parte divertente, convincerli del contrario". Come fu divertente penetrare in certi abiti mentali tipici degli italiani attraverso la lettura dei libri di Malaparte, e scoprire il paesaggio toscano e le sue bellezze artistiche affidandosi alle prose di viaggio di un suo compatriota celebre, lo scrittore Miloš Crnjanski. Ljubav u Toskani [Un amore in Toscana] - apparso nel 1930, affresco lirico ed espressionistico, incredibilmente mai tradotto in italiano – fu per Vule Žurić un vero e proprio itinerario spirituale entro cui prese forma il suo primo romanzo, scritto sotto quel cielo di Toscana "che placa e culla i barbari", come lo tratteggia Crnjanski.
Il titolo, Blagi dani zatim prođu [Passarono allora i giorni sereni, 2001], riprende proprio un’espressione presente nel Diario di Čarnojević e introduce a un viaggio biografico a ritroso nella dissoluzione della Jugoslavia, dalla Sarajevo assediata fino allo sciopero dei minatori kosovari nel 1988, che Žurić aveva vissuto in prima persona durante il servizio militare, svolto in Kosovo nel reparto infermeria ("quando ero assegnato alla guardia notturna, scaricavo di nascosto le munizioni dal fucile"). Ne venne fuori un autentico Bildungsroman, una "autopurificazione della memoria", dice lui, che rappresentò un passaggio decisivo per la sua successiva produzione narrativa. Nella quale l’opera di Crnjanski sarebbe rimasta comunque un punto di riferimento, come testimonia lo spassoso Crne ćurke [Tacchini neri, 2006], una parodia dell’epos Migrazioni ambientata nella Jugoslavia degli anni sessanta, nel pieno di quella stessa retorica titoista in cui Žurić coglie i prodromi dell’attuale, imperante cultura turbofolk.
Non è forse un caso, dunque, se mi dà appuntamento da Orač, una vecchia taverna belgradese a pochi passi dalla cattedrale di San Sava e dirimpetto a un anonimo casermone in stile socialista che reca all’entrata una targa letteralmente divorata dalla ruggine: qui visse il grande scrittore Miloš Crnjanski.
Quando hai scoperto il tuo talento per la scrittura?
A dir la verità fu la mia insegnante di letteratura dell’Istituto a scoprirlo e a incitarmi a coltivarlo attraverso la lettura di alcuni classici trascurati in famiglia, soprattutto Krleža e Matoš. E devo ringraziare la sua ostinazione se, anziché in una qualche sperduta stazione di provincia, finii alla facoltà di Storia dell’Arte. Al test d’ammissione ottenni la più alta votazione, ma poi frequentai soltanto sporadicamente le lezioni e detti sì e no un paio di esami.
Ero molto più attratto dalla vita culturale della città, dal cinema e dal teatro; la “Književna Revija” pubblicava i miei primi pezzi di critica cinematografica, perlopiù dedicati a registi francesi. M’interessavo di politica, partecipavo alle discussioni pubbliche, organizzavo happening, respiravo a pieni polmoni quell’atmosfera elettrizzante, euforica, un poco edonistica e parecchio promiscua che pareva aver contagiato tutti e in cui nessuno presagiva l’incombere della catastrofe.
Almeno fino alla metà del 1991 Sarajevo è stata la città ideale per chi, come me, amava la libertà di espressione e di costumi. La guerra si è accanita soprattutto sulla mia generazione, polverizzando un patrimonio inestimabile di intelligenze vivaci, spiriti anticonformistici e desideri di cambiamento, e obbligando ciascuno di noi alla fuga, prima di tutto da noi stessi
Quando è avvenuta la tua fuga – concreta da Sarajevo?
La mia non è stata una fuga, nel senso di un atto meditato o pianificato. Nessuno ha mai voluto cacciarmi, non mi sono mai sentito realmente in pericolo, nonostante sia rimasto in città fino all’estate del 1993. Abitavo in centro, poco distante dal Parlamento e dalla mitica Cineteca, in un quartiere a maggioranza musulmana, e al di là di qualche minaccia alla mia famiglia preferita da gente fino a quel momento mai vista, non avevo avuto nessun tipo di problema.
Il 5 aprile 1992, alla grande manifestazione contro la guerra, c’ero anch’io. Il mese precedente avevo boicottato il referendum perché vedevo nella Bosnia indipendente la pura estensione di una raja di quartiere: una comunità chiusa, omogenea, autoreferenziale e bellicosa. Oltre ad aborrire ogni retorica identitaria, consideravo al tempo stesso l’idea della Grande Serbia un clamoroso errore storico e politico. Ero altresì convinto che la struttura istituzionale della Jugoslavia fosse un esperimento destinato a non durare nel tempo, e in un certo senso mi auguravo una sua radicale trasformazione.
Per me la Jugoslavia, prima che una nazione, era un grande spazio di espressione, o semplicemente, col senno di poi, la libertà di andare a Belgrado a comprare libri e dischi senza il bisogno di un passaporto, di leggere “Politika” seduto su una panchina della mia città o tifare pubblicamente per la Stella Rossa senza il rischio di essere malmenato. Ho vissuto un anno di assedio con l’ingenua, insana persuasione che la follia omicida fosse un qualcosa di alieno e temporaneo, un morbo contratto dall’esterno che prima o poi sarebbe stato debellato dai nostri stessi anticorpi. E non capivo che quella era una via senza ritorno, che nulla sarebbe mai più stato come prima.
Nel giugno del 1993 venni ingaggiato come interprete dalle forze dell’UNHCR (per noi sarajevesi la sigla stava per Udijeli Nam Hrane Cigara Rakije – “Dona a noi cibo, sigarette e grappa”, ndr), ovvero l’unica realtà multietnica rimasta in Bosnia. Trascorsi alcune settimane a Žepa, il villaggio reso celebre da Ivo Andrić. Al ritorno a Sarajevo, dopo un viaggio allucinante (ci volle un intero giorno per coprire una distanza di ottanta chilometri), fui colto improvvisamente da una sensazione fisica di estraneità: per la prima volta respirai un’aria carica di odio e disperazione, sentii che anch’io avrei potuto cominciare a odiare, e ne rimasi profondamente turbato. Qualche giorno dopo mi trovai di nuovo su un convoglio di Caschi Blu sulla stessa direttrice, e una volta a Žepa decisi di mollare il mio lavoro da interprete e di proseguire per Belgrado, una delle poche destinazioni raggiungibili senza correre troppi rischi.
Il mio piccolo zaino conteneva della biancheria intima, una copia di Grozdanin kikot di Hamza Humo e un manoscritto di racconti, i miei, che sarebbero stati pubblicati qualche anno più tardi nelle raccolte Dvije godine hladnoće e U krevetu sa Madonom [A letto con Madonna, 1998]. Quelle pagine erano il filo che mi teneva legato al mio passato, il senso stesso della mia esistenza. Nonostante fossi stato accolto calorosamente dai miei kumovi (padrini, ndr), i primi quattro mesi a Belgrado li trascorsi in preda a una totale paralisi emotiva. Non lessi un solo libro, aprivo il giornale solo per controllare i risultati calcistici, vegetavo a letto. Trovai finalmente il modo di uscire di casa per andare a iscrivermi all’Università, ma anche stavolta la mia carriera accademica si sarebbe tradotta in buone intenzioni e nulla più. Riuscii pian piano a inserirmi nel mondo editoriale belgradese e mi dedicai ad altro. Per rispondere alla tua domanda: non si è trattato di una fuga, ma di un divorzio consensuale dalla mia città natale, che per fortuna non prevede alimenti...
Torni spesso a Sarajevo?
Una volta all’anno, non di più. La prima occasione fu nell’autunno 2000, sette anni dopo quell’addio per certi versi incomprensibile. Io, che avevo trascorso la gran parte della mia giovinezza per strada, camminando per le vie della città mi sentivo uno spettro circondato da spettri. Le taverne che avevo frequentato quasi quotidianamente erano punteggiate da volti sconosciuti, non ritrovai quasi nessuno dei miei vecchi amici e conoscenti. Insieme a un oste passammo in rassegna i destini di parecchi di loro: morti, emigrati all’estero, rifugiati in altre zone del Paese, in cura presso centri di salute mentale, qualcuno in affari loschi, qualcun altro in politica sotto l’ala protettiva del solito partito etnico.
Sul tram che attraversava il Viale dei Cecchini un ragazzo in evidente stato confusionale cominciò a osservarmi con due occhi iniettati di sangue. Presi a fissarlo anch’io, forse alla ricerca di una comunicazione telepatica. Dopo qualche minuto eruppe in una domanda biascicata: "E-e-xcuse me, brate, whe-where are you co-coming f-f-from?". Lo guardai per un attimo, quindi gli urlai in faccia: "Ja sam ti, jarane, odavde!" ["Amico mio, sono di qui!"]. Quello si spaventò e nel tram calò una coltre di silenzio. Nell’attimo esatto in cui mi chiesi chi dei due fosse in realtà il pazzo, scesi dal tram, mi diressi ad ampie falcate alla stazione delle corriere e salii sulla prima diretta a Belgrado. Ogni dubbio si era diradato... Te l’ho detto, per me Sarajevo è C’eravamo tanto amati, è come una ex moglie con cui si ha un rapporto cordiale e rispettoso, ma nulla più.
La guerra è presente in quasi tutti i tuoi racconti e romanzi, ma quando non viene trasfigurata dalla finzione, rimane sullo sfondo, è, per così dire, l’imprescindibile cornice narrativa di piccole storie, vicende private, atmosfere domestiche. I lettori italiani lo possono verificare in uno dei tuoi racconti più belli, Miss you, Božo Sušec (inserito nella raccolta Casablanca serba, a cura di Nicole Janigro, Feltrinelli, 2003): la guerra è coda per il pane, pacchetti di sigarette semivuoti, odore di caffè, appartamenti gelidi, sesso sbrigativo e vorace, bombardamenti derubricati a semplici “tuoni”. Sembra quasi tu abbia il timore di andare più in profondità, sviscerarne la sostanza, le cause scatenanti, le ragioni dell’una o dell’altra parte. Il timore in qualche modo di prendere posizione.
L’unica verità, l’unico dato incontrovertibile di una guerra, qualsiasi guerra, sono i nomi dei morti. Per il resto, la guerra appartiene esclusivamente alla memoria privata. Ti dirò di più: la memoria è di per sé un contenuto privato. Non credo alle grandi narrazioni, alle reliquie collettive, alla monumentalizzazione del passato. La Storia non è altro che la somma algebrica di tante piccole storie individuali. Lo stesso vale per l’Identità, un guazzabuglio di ombre prive di una forma compiuta.
È per questo che hai sempre rifiutato la definizione di “serbo-bosniaco”?
È per questo che ho sempre rifiutato qualsiasi definizione! Fino al 1998 ho vissuto a Belgrado con lo status di rifugiato. Pur non essendo un fan né di Drašković ne di Đinđić (quest’ultimo avrei avuto modo di apprezzarlo negli anni successivi), sono stato tra i primi a scendere in piazza nell’inverno del 1996. Partecipavo alle manifestazioni contro Milošević e per la democrazia in Serbia, e l’unico documento d’identità che avevo in tasca era la mia vecchia lična karta jugoslava: rischiavo la pelle per uno Stato di cui non ero cittadino e appartenevo ufficialmente a una nazione che non esisteva più. Una situazione grottesca. Inoltre in quegli anni lavoravo come redattore per una collana di letteratura dell’editore B92, diretta da Dragan Velikić. Ironia della sorte, la collana si chiamava Apatridi. In seguito, nonostante mi abbiano generosamente, anche se non proprio tempestivamente, riconosciuto una nazionalità, ho continuato a sentirmi un “esule volontario”, una condizione senz’altro congeniale alla mia attività letteraria, anche se la perdita di una patria finisce per diventare una sorta di disabilità mentale. Non appena ottenni la cittadinanza mi trasferii a Pancevo, dove vivo tuttora. Poco prima che diventasse un target privilegiato delle bombe “umanitarie” della NATO, e uno dei luoghi più inquinati d’Europa. Fu senza dubbio una scelta azzeccata...
Un’altra tua fonte di ispirazione è il calcio, che sembra essere molto più di una passione. Al calcio hai dedicato un intero romanzo, il noir Rinfuz [Massa, 2003], ambientato in Sudamerica ma con chiari riferimenti alla realtà politica serba poco dopo l’assassinio di Zoran Đinđić. E più recentemente una raccolta di racconti dal titolo emblematico, Katenačo (2011), in cui varie vicende calcistiche si incrociano in teatri di guerra. In ogni caso, ci sono tante scene di football nelle tue opere narrative, spesso di stampo tragicomico e con effetti esilaranti. Penso a uno dei protagonisti di Mrte brave [Serrature morte, 2008], un giovane talento bosniaco acquistato da un blasonato club spagnolo e rispedito al mittente perché il cognome è troppo lungo e non può essere stampato sulla maglia, né si riesce a trovare un abbreviativo efficace (i nomi di origine ottomana sono sempre stati poco cool). Oppure quel gruppo di giovani a Sarajevo che in un racconto di U krevetu sa Madonom approfittano di una pausa nei bombardamenti per giocare a pallone davanti alla casa di un’anziana signora: finisce che la vecchia viene colpita in pieno volto da una pallonata e muore sul colpo (della serie: le disgrazie avvengono quando meno te lo aspetti). Che rapporto c’è, secondo te, tra calcio e letteratura?
Nessun rapporto. Semplicemente: il calcio è letteratura. O meglio, un particolare genere letterario che potremmo definire “epica postmoderna”. Nel calcio, amore e guerra diventano archetipi. Per esempio, Stella Rossa-Vojvodina di qualche giorno fa (ma potrei prendere qualsiasi match del campionato serbo) è stata una partita insulsa, priva di spettacolo, irrilevante dal punto di vista tecnico, nonostante la vittoria per tre a zero. Eppure, se si trascende il dato puramente calcistico, in campo c’erano ventidue eroi per caso, che mettevano in scena valori primordiali, quali forza di volontà, coraggio, furbizia, intesa reciproca, generosità. Due piccoli eserciti nemici che si davano battaglia per la difesa del proprio territorio e la conquista di quello altrui, e che scatenavano intorno a loro sentimenti di appartenenza ormai estinti in quasi tutti gli altri contesti. Il calcio, in ogni suo palcoscenico – dallo stadio Marakana al cortile sotto casa ha uno straordinario potenziale narrativo. Racconta come è fatto l’uomo.
Da autore e presidente dello Srpsko književno društvo, la più importante associazione degli scrittori serbi, credi che gli scrittori, e la letteratura in genere, abbiano ancora un ruolo decisivo nella discussione pubblica e nello sviluppo civile della Serbia contemporanea?
Hanno un ruolo, certo. Ma è lo stesso ruolo di Alfred Hitchcock in un film di Alfred Hitchcock. Compare in un paio di scene, e in pochi se ne accorgono. Nonostante l’associazione che presiedo conti quasi duemila iscritti, nella nostra vita culturale e politica si è via via radicata l’opinione secondo la quale la letteratura, in fin dei conti, non è una cosa seria, né un tema decisivo per la nostra convivenza. E non è soltanto perché il concetto di “responsabilità intellettuale” ha perso ogni valore, ma perché intorno alle questioni letterarie e culturali è calato il disinteresse generale. Non so, per quanto mi riguarda, e malgrado la carica che rivesto, non credo di essere la persona più adatta per un giudizio simile. Sono pur sempre un capostazione prestato alla scrittura.
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