È il gruppo musicale più celebre della scena musicale slovena degli ultimi decenni. I Laibach sono noti per essere provocatori e irriverenti. Avrebbero dovuto suonare a Kyiv in questi giorni, ma le loro prese di posizione sulla guerra non sono piaciute agli organizzatori che hanno annullato il concerto
Correva il 26 settembre del 1980 quando a Trbovlje, una grigia cittadina mineraria slovena, comparvero due manifesti. Il primo aveva una croce nera, nel secondo qualcuno cavava gli occhi alla sua vittima. Su entrambi si leggeva la scritta Laibach. Si trattava di un invito ad una mostra ed un concerto che si sarebbero dovuti svolgere due giorni dopo. Le autorità comuniste vietarono immediatamente quello spettacolo e ne seguì una ridda di polemiche. La croce richiamava fin troppo l’iconografia nazista, mentre l’uso del nome tedesco di Lubiana era considerata una provocazione inaccettabile.
Era nato il gruppo musicale più celebre della scena musicale slovena degli ultimi decenni. Un collettivo artistico che con le sue diramazioni nel campo delle arti visive e del teatro sfidò i tabù dell’identità nazionale slovena e giocò a mettere in luce le contraddizioni ed il fascino del totalitarismo.
Un fenomeno possibile al tramonto del socialismo, quando il regime stava crollando e dove tutto sembrava lecito. Una particolarità non solo slovena, ma anche di altre band dell’est europeo. I Laibach, però, sono stati sulla cresta dell’onda per tutti gli anni Ottanta e Novanta e ancora oggi continuano ad essere oggetto di culto e di studio, passando con successo da una provocazione all’altra.
Nel 2015 sono stati la prima band straniera ad esibirsi a Pyongyang, in Corea del Nord, per celebrare il settantesimo Anniversario della Liberazione dall’occupazione giapponese. Il messaggio lanciato, all’epoca, alle autorità coreane fu eloquente: “Voi siete noi. La nostra forma è il vostro contenuto. Quello che noi cantiamo voi lo mettete in atto”. In programma ci sarebbero stati due concerti, ma dopo aver visto la prima esibizione i coreani decisero di cancellare la replica che avrebbe dovuto andare in scena nei giorni seguenti.
Poche settimane fa i Laibach hanno riscosso grande successo in patria, partecipato alla cerimonia di apertura del Campionato del mondo di sci nordico a Planica. Sono saliti sul palco per interpretare “O Tricorno la mia casa”, una canzone classica del repertorio nazional popolare e patriottico sloveno, dedicato al monte simbolo del paese. Una esecuzione, fatta insieme ad altri cantanti, dal tono epico che ha entusiasmato coloro che dicono di avere la Slovenia nel cuore; anche se altri hanno fatto notare che i Laibach sono diventati una caricatura di se stessi e che questa volta, però, più che farsi beffe del potere in realtà sono sembrati mettersi al suo servizio.
Proprio in concomitanza con quella rappresentazione la band è tornata a riempire le pagine dei giornali annunciando che il 31 marzo avrebbe cantato in concerto a Kyiv in Ucraina. In un comunicato emesso dal gruppo si precisava che mentre l’Europa di preparava a celebrare la sua idea di libertà e di solidarietà il 9 maggio a Liverpool, sarebbero stati loro a portare l’Eurovisione in Ucraina, dove “va in scena l’unica vera visione dell’Europa”. Il significativo titolo dell’iniziativa voleva essere una sorta di risarcimento per la mancata organizzazione nel paese della rassegna canora europea, che sarebbe spettata di diritto all’Ucraina dopo la vittoria dello scorso anno dei Kalush Orchestra con la canzone Stefania.
Questa volta non sarebbero state le prime star a cantare nella capitale assediata. Nel maggio scorso il frontman degli U2 Bono, insieme con The Edge aveva improvvisato un concerto in una stazione della metropolitana, ma per i Laibach ci sarebbe stata una esibizione addirittura alla Bel Etage Music Hall, una sala concerti vera e propria. Alla fine, però, non se ne è fatto nulla.
I Laibach parlando della guerra in corso hanno detto che non è altro che un conflitto tra Stati Uniti e Russia, condotto su suolo ucraino. “Una cinica guerra per procura per gli interessi geostrategici delle grandi potenze e del capitale finanziario” come ad esempio l’industria bellica. Le considerazioni degli artisti sloveni non sono piaciute agli organizzatori. Per i resistenti, sentirsi dire che non sono altro che burattini nelle mani degli Stati Uniti e dell’alta finanza è stata la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso.
Simili discorsi fatti da lontano non erano mancati negli anni Novanta, riferiti al processo di indipendenza sloveno ed alla dissoluzione della Jugoslavia. Visto dalla prospettiva di chi combatteva sul campo per ottenere l’indipendenza o per conservare l’integrità dei propri confini, però, tali considerazioni erano percepite come profondamente offensive, frutto di scarsa conoscenza della situazione e di un complesso di superiorità. Discorsi da salotto, fatti da lontano, infarciti da sofistiche analisi geopolitiche e propositi pacifisti.
Gli organizzatori hanno chiesto spiegazioni alla band, che ha risposto in un comunicato in cui si diceva di stare dalla parte degli ucraini, ma anche di ammirare la cultura russa. La cosa non ha fatto altro che gettare benzina sul fuoco. Alla fine, dopo un batti e ribatti sempre più acceso il concerto è stato annullato.
Sulla vicenda lo scrittore Goran Vojnović, ha lapidariamente concluso che agli ucraini “può sembrare assurdo che a raccontargli dell’incommensurabile amore per la cultura russa siano persone che vengono da un paese, che trent’anni fa, dopo una guerra di soli dieci giorni con l’Armata popolare Jugoslava, ha cancellato dai suoi libri di testo gli scrittori jugoslavi, compreso Danilo Kiš e Ivo Andrić, mentre la musica jugoslava, compresi i pezzi contro la guerra, per più anni è stata bandita dalle radio”.
In guerra è difficile coltivare l’amore per il proprio avversario, anche per la sua cultura. Le cicatrici che restano sono profonde e la ricomposizione difficilissima. Per capirlo non serve andare in Ucraina, ma basta guardare alle guerre jugoslave o alle ferite non ancora del tutto rimarginate lasciate al confine Orientale dalla Seconda guerra mondiale.
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