Partigiani jugoslavi - Wikipedia

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Un racconto che attraversa decenni di storia, passando dalla lotta di liberazione jugoslava per arrivare al 2012. Nel suo "Paura, io?", con pochi tocchi magistrali Maruša Krese smaschera l’abisso che separa gli ideali dalla realtà, frattura dolorosa che il potere sa nascondere bene

04/07/2024 -  Diego Zandel

Nel leggere il bel romanzo della slovena Maruša Krese “Paura, io? ”, edito da Besa Muci e tradotto da Lucia Gaja Scuteri, sono ritornato con il pensiero ai racconti e alle delusioni di mio padre che, diciottenne, in una Fiume diventata, come tutta la Venezia Giulia, zona del Terzo Reich con il nome di Adriatische Küsterland, va in bosco, cioè si arruola con i partigiani, monopolio da quelle parti di Tito.

Di sentimenti italiani, viene mandato in Lika, lontano da Fiume e dal rischio di inquinamenti, ma a mio padre interessava cacciare via da quelle terre i tedeschi. Viene accorpato alla Quarta Armata comandata dal generale Petar Drapšin, gli viene insegnato a guidare i camion, e farà quello.

Non penso che la sua esperienza sia molto diversa da quella così ben raccontata da Maruša Krese nella prima, lunga parte del suo romanzo, riferita agli anni della guerra, anche se la data che porta, 1941, sia di qualche anno antecedente alla partecipazione di mio padre, ancora troppo piccolo all’epoca per un impegno così grande.

Ma certo, i mesi nei quali lui è in bosco, conduce una vita simile, forse assistendo a qualche violenza in più che il romanzo non contempla (colpi alla nuca, impiccagioni ai lampioni delle strade); romanzo, in queste pagine rivolto più agli aspetti epici, animati dalla speranza di un mondo migliore, più giusto, che per i partigiani del romanzo erano rappresentati anche dall’obiettivo della nuova Jugoslavia.

Il grido Tito, partija compare più volte nel racconto. Ma, come vedremo, questo tipo di sottolineatura in Maruša Krese ha anche un valore strutturale, per meglio mettere in luce cosa succederà negli anni a venire che, nel romanzo, si riferiscono indicativamente al 1952, 1968, 2012.

Mio padre, più modestamente, aspirava a liberare le sue terre dai nazisti. E non si tira indietro: con i partigiani - le notti all’addiaccio, gli indumenti insufficienti - si ammalerà anche di pleurite, per cui pochi anni dopo dovrà essere operato a Roma a un polmone, perdendone mezzo. Finché non arriva l’ordine di raggiungere Trieste, con l’obiettivo di occupare la città prima dell’arrivo degli alleati.

Ben lieto di aver lasciato i boschi della Lika per una città come Trieste, vive subito delusioni cocenti: assiste al disarmo dei partigiani italiani da parte di quelli di Tito, all’arresto e sparizione di diversi di essi, ad alcuni omicidi: tra questi quello del partigiano, un istriano di nome Belletti, che gli aveva insegnato a guidare il camion. S’impaurisce e, nella sua ingenuità di diciannovenne (i 19 li avrebbe compiuti proprio a Trieste, il 6 maggio) diserta e torna a Fiume, a casa, dove viene arrestato, appunto, per diserzione.

Due anni dopo, deluso, troverà il modo di andarsene da Fiume, per sempre. Ed è questo stesso sentimento di delusione, seppur altrimenti motivato, che troverò nel romanzo di Maruša Krese.

Arrivati al potere, tutta la bella epopea di quella che, per i partigiani sloveni, croati, serbo, bosniaci, conteneva il sogno di un paese più giusto, crolla davanti a una realtà che si misura ancora con i privilegi e l’arbitrio, tra chi ha e chi non ha.

Il partigiano idealista che ha perso una gamba in guerra e la sua donna che non ha paura e lottava per la libertà (“Paura,io? No. È già il terzo giorno che sto qui, acquattata nella neve”, così prende avvio il romanzo) si trova a fine della guerra a dover fare i conti con ingiustizie ed egoismi di rapina.

Il partigiano che fa razzie di quadri e tappeti che prima si trovavano nel castello del conte scandalizza la donna che a suo tempo frequentava la biblioteca del conte, prendendo i libri che desiderava leggere; nell’assistere alle indebite appropriazioni, si premura di prendere e nascondere un quadro che le piaceva tanto sotto il materasso per farne sua proprietà.

Ma, pronto, arriva il compagno che fa razzie e le chiede di consegnarglielo perché, le dice, Tito lo desidera. E lei, allora, ingenuamente glielo dà. Il marito, senza una gamba, giunto a casa nel saperlo la rimprovera: “E tu davvero pensi che quel quadro arriverà a Tito? Che lui sappia della sua esistenza?” e lei commenta: “E tutto a un tratto una nuova indignazione inizia a sovrapporsi al dolore che mi porto dentro. Tito, partija!”.

Poi c’è l’assegnazione degli appartamenti da parte del Partito. E anche lì emerge la natura umana, pronta a sconfiggere qualsiasi ideale. La partigiana che non aveva paura va a casa di una compagna e scopre che gli è stata assegnata una casa diversa dalla sua, grande, lussuosa, luminosa. “Ma quale principe ha abitato qui?”, chiede all’amica, che arrossisce. E ancora più arrossisce quando la figlioletta di lei, nata nel frattempo, entra nel salone accompagnata dalla… cameriera.

Sono solo alcuni esempi dei tanti che la Krese, donna di grande spirito, tra l’altro anche psicoterapeuta, svela, mettendoli a confronto con l’epopea della lotta popolare. Ma nel trascorrere degli anni la distanza si fa sempre più grande. L’espulsione della Jugoslavia dal Cominform mette in maggiore luce la sempre maggiore illibertà che travolge il paese, con l’arresto e la deportazione dei comunisti non allineati a Tito, o solo sospettati di non esserlo.

La donna, chiamata per questo motivo a una riunione, viene preavvertita sulla porta da un amico, senza capire perché: “Non sei per Stalin, capito. Non lo sei. Stalin è nostro nemico.” Lei, che non immagina una cosa del genere, reagisce: “Ti sbagli. Scusa, stamattina era ancora nostro amico”. E qui comincia il terrore. Più avanti. Il marito ha in mano l’onorificenza dell’eroe nazionale sovietico e la piccola bandiera sovietica.

“- Nel cestino - dice lei.

- Non ce la faccio. Nascondo da qualche parte.

- No, non puoi. Adesso è diverso. Abbiamo un figlio.

Raduno i libri. Tolstoj, Dostoevskij, Čekhov, Gorkij. Cerco il suo sguardo.

- Che dici?

- Ma se sono stati scritti prima di Stalin – risponde con tono deciso.”

Ma ce ne saranno altri, naturalmente, di ordini e contrordini, e sempre nell’interesse di chi gestisce e briga per mantenere il potere.

Passano gli anni. Anche la figlia, nata nel dopoguerra, dovrà sottomettersi ai compromessi. È una studiosa di storia, e in questa veste va con una delegazione nella Romania di Ceaușescu.

“Ci scorrazzano per Bucarest con limousine e luci blu. Oltre ville con il filo spinato in cima ai muri. Oltre costruzioni gigantesche, un solo edificio è grande quanto mezza Lubiana. Orchestre, ricevimenti, brindisi al socialismo e zero, ma proprio zero vita. Stasera io e Janez siamo usciti dall’albergo. Siamo stati fermati dopo neanche tre metri. Non so, forse erano dieci.

- Non si può.

- Vorremmo solo farci una passeggiata – il nostro russo sgangherato.

- No!”

E, rientrando, poco prima di arrivare al confine, il capogruppo, chiude la porta dello scompartimento e li mette in guardia disponendo la versione ufficiale che dovranno osservare: “Ricordatevelo. È andato tutto bene. È stato bello. La Romania è un Paese bello e buono”.

E si arriva così all’ultima parte del romanzo, al 2012, la Jugoslavia è ormai finita da un pezzo, i nazionalismi, e i trasformismi, compreso quello della Slovenia, continuano a trionfare. Per cui assistiamo a diverse scene.

Una per tutte, Marija, la donna a cui era stato assegnato l’appartamento principesco è adesso una grande nazionalista e rimprovera la nostra protagonista di aver permesso alle sue due figlie di andare in Bosnia. Lei le fa capire che ormai sono “adulte da un pezzo”. E Marija: “Sono così tanto delusa da voi (…) Quando tornano saranno infarcite di propaganda bosniaca”.

In “Paura, io?” Maruša Krese, con pochi tocchi magistrali, smaschera una realtà che misura l’abisso che separa gli ideali dalla realtà che il potere sa bene nascondere, ammantandoli di una retorica della quale le prime vittime sono proprio coloro che ci hanno creduto per primi, pagando due prezzi, non so quale più alto: o quello della rimozione nel perdurare di una illusione che per loro sarebbe troppo doloroso guardare in faccia e abbattere (e che la maggioranza, ovviamente, preferisce) o, appunto, coraggiosamente, il suo contrario, veleggiando lontano, nella verità e libertà di pensiero “via da ciò che soffoca, via da questa cupezza piena di ossa e di vendette. Di giustificazioni. Di scuse. A che scopo, a chi? Mi sono sempre chiesta”, le parole finali di “Paura, io?”. Grazie, Maruša Krese.


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