Lo scorso ottobre si è tenuta la 24sima edizione del Festival del film sloveno a Portorose, appuntamento sulla costa istriana che è tornato di nuovo in presenza dopo lo stop a causa della pandemia. Molti i film interessanti sia di produzione slovena che in coproduzione con altri paesi. Una rassegna
Un’altra buona annata per il cinema sloveno, che, come di consueto, ha presentato il meglio dell’ultimo periodo al Festival di Portorose . Un appuntamento sulla costa istriana ritornato in presenza, dopo l’interruzione del 2020, molto sentito e partecipato da tutto il mondo cinematografico nazionale. I sei giorni hanno presentato un discreto numero di opere interessanti tra produzioni slovene e coproduzioni, alcune di queste già presentate in altri festival internazionali, mettendo in luce anche alcuni nomi nuovi.
Il premio principale, il Vesna per il miglior film, è stato attribuito un po’ a sorpresa a “Prasica, slabšalni izraz za žensko - Bitch, a Derogatory Term for a Woman“ dell’esordiente Tijana Zinajić. Una commedia sentimentale che vorrebbe essere un po’ scorretta e guarda come modello a un certo cinema americano. Un lavoro gradevole e insolito nel panorama sloveno, ma forse di non grande interesse fuori dai confini nazionali. Eva lavora come libraria ma da tempo non è pagata e ha ambizioni come pittrice e modella, intanto porta avanti una relazione insoddisfacente con il suo mentore. I suoi coinquilini Nina e Blaz sono presi dalle loro cose e soprattutto quest’ultimo sta per trasferirsi a Berlino. Un ritratto di una generazione incerta, alla ricerca di un punto di svolta, tra sentimenti, sesso e arte. Il film ha ottenuto anche i Vesna per la sceneggiatura (Iza Strehar), miglior attrice protagonista (Liza Marijina) e non protagonista (Anuša Kodelja), scenografia (Neža Zinajić) e costumi (Matic Hrovat)
Il Vesna per la miglior regia è andato a “Inventura - Inventory”, primo lungometraggio di Darko Sinko. Boris è un impiegato di mezz’età con una vita molto regolare: una sera dopo cena, mentre è in casa con la moglie, sente all’improvviso uno sparo e un proiettile buca la finestra. Dopo l’iniziale spavento, chiamano la polizia che fa i rilievi di rito e comincia le indagini. Nessuno ha visto nulla, dalla traiettoria il colpo dovrebbe essere partito dal parco circostante, ma non ci sono indizi né sospetti. Ogni pista considerata non è suffragata da alcuna prova, sembra che nessuno ce l’abbia con il protagonista. E, mentre gli inquirenti rinunciano a risolvere il caso, il protagonista si mette a investigare per conto suo, all’improvviso vede familiari, colleghi e conoscenti con occhi diversi: tutti sono sospettabili o tutti gli sembrano cambiati. Boris inizia a dubitare di chiunque e ha la sensazione di impazzire. Sinko usa i toni di una commedia drammatica per sgretolare la vita di un uomo qualunque e mostra come tutto possa cambiare all’improvviso e anche che il mondo più quieto e riparato può essere travolto dall’imponderabile. Un regista debuttante da tenere d’occhio. Il bravo protagonista Radoš Bolčina ha ricevuto il Vesna come migliore attore, mentre Dejan Spasić quello di non protagonista e Matija Krečič il premio per le musiche.
L’italo-sloveno “Piccolo corpo” dell’esordiente Laura Samani, già presentato a Cannes nella Semaine de la critique, ha vinto come miglior coproduzione minoritaria e per la fotografia di Mitja Ličen.
Premio per il trucco a Martina Šubic Dodočić per “Oasis” del serbo Ivan Ikić e per il suono a Julij Zornik per “Murina” della croata Antoneta Alamat Kusijanović, già vincitrice della Caméra d’or al Festival di Cannes.
Premio al miglior cortometraggio per il bel “Sestre - Sisters” di Kukla, ritratto di tre giovani sorelle, una lesbica e due sorde con l’apparecchio, che faticano a trovare posto nella società, e Vesna per il miglior film animato “Steakhouse” di Špela Čadež, già presentato a Locarno.
Un Vesna speciale è andato a Rok Biček (già noto per “Class Enemy – Nemico di classe”, “The Family”) per l’ottimo cortometraggio “Penalty Shot”. In un pomeriggio assolato d’estate due bambini giocano a calcio in un campetto isolato simulando i rigori tra Jugoslavia e Argentina ai quarti di Italia '90. Entrambi sognano di fare i calciatori, vorrebbero far parte insieme della nazionale. Quando arrivano i ragazzi più grandi, uno dei ragazzini è ignorato completamente, l'altro è messo in porta e paragonano a Ivković, il portiere di quella Jugoslavia, prima tirano piano, poi iniziano a prenderlo a pallonate finché gli fanno male. E l'amico prende la sua parte contro i più grandi.
Un corto duro e delicato insieme, che rende bene l’atmosfera dei giochi estivi tra bambini, la prepotenza dei più grandi, la violenza che può sempre scattare. Biček, il più promettente dei registi sloveni, usa benissimo la luce e dirige al meglio i giovani interpreti.
Tra le scoperte dell’edizione del festival c’è sicuramente “Ameba” di Blaž Završnik, che ha ricevuto una menzione speciale della giuria. Un altro lungometraggio d’esordio, ambientato nella cittadina di Kamnik e prende il titolo da un locale, ritrovo per Dasho e i suoi due amici. Un piccolo film in un bianco e nero un po’ scuro, che ricorda il cinema indipendente americano tra Jim Jarmusch e Kevin Smith. Tre giovani un po’ ai margini della società, che vivono di espedienti in un mondo in dissoluzione. Quando nel centro non funziona più internet e non arriva più l’acqua, si innesca una spirale di fatti violenti e assurdi. Tra dramma e situazioni divertenti, un’opera fresca, con musiche (di Matter e Ygt) belle e ben sfruttate.
Il premio come miglior documentario, oltre che miglior montaggio (di Uroš Maksimović e Mariana Kozáková) e premio Fipresci, è andato a “Reconciliation” di Marija Zidar. Siamo sulle montagne dell’Albania nel 2014, un anno dopo l’uccisione della diciottenne Giyste, morta mentre cercava di proteggere il padre. Un episodio dentro una lunga faida di villaggio (nel passato ci sono altri delitti da chiarire e giudicare) che, come regola il Kanun, può portare a una riconciliazione dopo che siano trascorsi almeno 12 mesi. La regista segue il padre Gezim e la madre Vera, che compare soprattutto nella seconda parte, tra tentativi di strumentalizzazione (c’è chi vuole erigere un monumento alla giovane e farla diventare un generico simbolo di “sacrificio”) e altri di pacificazione per superare la violenza, come un comitato nazionale di riconciliazione. Con la videocamera Zidar riesce a inserirsi dentro una società chiusa e retrograda, ma anche contraddittoria, mostrando che, pur con molte difficoltà e dubbi, si può guardare avanti e superare vecchi odi e tradizioni antiquate.
Tema molto sentito in Slovenia è il passaggio dei migranti lungo la “rotta balcanica” che il governo ha cercato di arginare con i discussi fili spinati lungo la frontiera croata. La croata Tiha K. Gudac (affermatasi nel 2014 con “Goli – Naked Island”) parte proprio dal confine sul fiume Kupa per esplorare un’area già raccontata in “Varuh meje – I guardiani della frontiera” (2002) di Maja Weiss, uno dei primi film sull’attraversamento dei migranti. Il risultato è “The Wire – Žica”, che ripercorre gli scambi tra Slovenia e Croazia tra gare di corsa e nuoto, raduni antifascisti e manifestazioni di amicizia transfrontaliera. Oggi quasi tutti i residenti sono contro il filo spinato, lo sentono come inutile e costruito contro di loro, perché ostacola la loro vita e danneggia il turismo. Molti denunciano la gravità della situazione, ma c’è anche chi va nei boschi alla ricerca dei migranti in cambio di 200 euro ciascuno. Non mancano il racconto di un migrante che ha vissuto nei boschi (“la giungla”) e ha tentato di attraversare più volte e altri che affrontano “The Game”: uno di loro racconta di essere stato fermato e picchiato dai croati e riportato in Bosnia. La regista non si limita a investigare l’attualità, ma cerca di metterla in relazione con il passato (anche con ripetuti paralleli con la Seconda guerra mondiale) e capire come si sia arrivati a questa situazione, ma il documentario è interessante ma non incisivo quanto il precedente “Goli”.
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