La crisi economica in Slovenia paventa nuove drastiche misure per il contenimento della spesa tra cui la modifica costituzionale per imporre il pareggio di bilancio. Mentre la classe politica sembra incapace di trovare adeguate soluzioni il paese è bloccato tra la paura per il futuro e uno scontro permanente sul passato
La Slovenia è in crisi. Le misure di contenimento della spesa non sembrano aver suscitato gli effetti sperati e all'orizzonte si prospettano altri drastici tagli e un reale calo dello standard di vita. Sui giornali internazionali e nazionali non mancano le speculazioni che proprio Lubiana potrebbe essere la prossima a chiedere l’aiuto finanziario dell’Unione europea.
Il primo a ipotizzarlo è stato addirittura il premier Janez Janša, che a fine giugno aveva ventilato uno scenario greco e la necessità di aiuti internazionali nel caso il parlamento non approvasse la modifica costituzionale che impone il pareggio di bilancio. La dichiarazione fatta ad uso interno, con il fine di ottenere alla camera la maggioranza necessaria per far passare il provvedimento, non ha suscitato gli effetti sperati in patria, ma non sembra essere passata inosservata all’estero.
Il mantra del pareggio di bilancio
Per Janša, del resto, l’iscrizione nella costituzione del patto fiscale sembra essere diventato un vero e proprio mantra, ma per poter attuare il suo progetto ha bisogno dei voti dell’opposizione di centrosinistra. Socialdemocratici e Slovenia Positiva non sembrano volerglieli concedere e dicono che basta approvare un’adeguata legge come hanno fatto in Francia.
La questione più che di sostanza è di prestigio e per ora nessuno vuole cedere. A luglio si è persino rischiata la crisi di governo, tanto che Janša aveva ipotizzato voler chiedere la fiducia sull’approvazione del provvedimento e non è escluso che possa farlo a settembre. Le colpe di un eventuale fallimento potrebbero così essere scaricate sulla poco consistente opposizione, già ora additata di essere incapace di contribuire a mettere in atto le riforme necessarie nel paese.
Una chiave di lettura semplice questa, buona per gli elettori di Janša e forse per i suoi alleati europei. La realtà però appare più complessa. I problemi finanziari sloveni, ovviamente, non sono destinati a risolversi con l’inserimento nella costituzione di una norma che maggioranza e opposizione dicono, comunque, di voler applicare. La Slovenia ha ancora un debito pubblico relativamente contenuto, ben al di sotto dei criteri di Maastricht, ma che negli ultimi anni è stato in costante crescita e alla fine del 2012 sfiorerà il 52% del Pil.
Il declassamento di Moody's e le mancate soluzioni politiche
Quello che oggi paga Lubiana è la bolla immobiliare, con i crediti concessi allegramente dalle banche controllate dallo stato alle imprese edili, che ora stanno fallendo l’una dopo l’altra e i finanziamenti concessi a manager - considerati fino a ieri maghi della finanza, ma con importanti agganci politici - per una serie d’improbabili scalate alle aziende. Sta di fatto che le banche hanno seri problemi e proprio questa è stata la ragione principale che ha portato Moody’s a declassare pesantemente la Slovenia portandola da livello A2 a Baa2. In agosto, così, non si è fermata la speculazione sui titoli di stato decennali che hanno mantenuto rendimenti sopra al 7 percento, un tasso d’interesse ritenuto insostenibile a lungo termine.
Il paese che era stato visto per anni come il fulgido esempio di una transizione di successo sembra bloccato dall’incapacità della sua classe politica di trovare adeguate soluzioni. Nel precedente mandato fu proprio il partito del premier Janez Janša a dare un contributo fondamentale al fallimento di una serie di riforme ritenute indispensabili dal governo del debole Pahor e fatte cadere a colpi di referendum. Prima fra tutte quella previdenziale, che adesso si vorrebbe riproporre con qualche modifica.
All’orizzonte ci sarebbero una serie di altri provvedimenti da mettere in atto tra cui anche la riforma del mercato del lavoro. Per l’esecutivo i tempi dovrebbero essere rapidissimi, ma nuovi referendum non sono esclusi e d’altra parte il centrosinistra non sembra entusiasta di concedere troppa mano libera a Janša. Il premier, che battuto alle ultime elezioni, è arrivato alla guida dell’esecutivo sloveno grazie ai giochi di palazzo, per molti rappresenta, nel bene e nel male, la figura dell’uomo forte. Alcuni vedono in lui il messianico salvatore che ha portato il paese all’indipendenza e che ora sembra essere il fiero condottiero in grado di portare la Slovenia fuori dal guado, altri invece lo ritengono un politico cinico e dalle pericolose tendenze autoritarie.
Lui ed i suoi uomini, del resto hanno fatto poco o nulla per fugare quest’ultime paure. All’inizio di questo mandato avevano solennemente promesso ai loro partner di coalizione ed al paese che non avrebbero aperto temi di carattere ideologico, ma hanno subito cominciato a tagliare teste, non hanno voluto le bandiere dei partigiani, con le loro stelle rosse, all’ultima cerimonia della giornata dello stato, alcuni ministri e rappresentanti di Nuova Slovenia, il più piccolo partito di governo, hanno presenziato alla commemorazione della fondazione della prima unità collaborazionista slovena nella Seconda guerra mondiale ed è stato cancellato il nome del leggendario comandante partigiano France Rozman Stane, da una caserma dell’esercito sloveno. Come se ciò non bastasse allo storico triestino Jože Pirjevec, è stato impedito di parlare ad una celebrazione organizzata dalla associazione per l’amicizia sloveno russa a cui ha partecipato il premier Janša.
A Pirjevec non sono state perdonate, probabilmente, le sue frecciate al centrodestra, la sua strenua difesa della resistenza partigiana e la sua costante dura critica a tutte le forme di collaborazionismo con i nazifascisti. La cancellazione della sua partecipazione è stata accompagnata addirittura da una serie di inopportuni commenti, apparsi sui blog e sulla stampa organica al centrodestra, sul suo presunto scarso attaccamento alla causa nazionale slovena.
Ad ogni modo nel paese la crisi economica e la “guerra culturale” sembra avanzare di pari passo e la paura per il futuro viene accompagnata da uno scontro permanente sul passato. Nel centrosinistra, si ritiene che i valori fondanti del paese debbono restare ancorati alla resistenza, alla lotta al nazifascismo e non si vuole negare che anche la Jugoslavia di Tito avesse portato qualcosa di buono agli sloveni. Democratici e Nuova Slovenia invece vorrebbero una nuova ridefinizione nazionale basata su una critica feroce del passato comunista e fondata su quella che viene chiamata la “guerra d’indipendenza” e sul processo di emancipazione dalla Jugoslavia di cui l’eroe indiscusso sarebbe stato proprio Janez Janša, definito recentemente, con toni agiografici, da un giornale a lui vicino, “il più grande sloveno della storia”.
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