Tiraspol, Transnistria (foto Minamie's Photo)

Tiraspol, Transnistria (foto Minamie's Photo )

Dall’inizio dell’anno il piccolo Stato de facto, formalmente territorio della Moldavia, è entrato a far parte della Deep and Comprehensive Free Trade Area con l’Unione europea. Una mossa a sorpresa da parte di Tiraspol, i cui effetti politici sono ancora tutti da valutare

10/02/2016 -  Danilo Elia

A pochi giorni dalla fine del 2015 le autorità transnistriane hanno fatto sapere di essere riuscite a convincere l’Unione europea ad estendere la Deep and Comprehensive Free Trade Area (Dcfta), già in vigore con la Moldavia, anche alla piccola repubblica ribelle, a cominciare dall’anno nuovo. L’hanno raccontata come una vittoria del governo di Tiraspol, ma è molto improbabile che le cose siano andate veramente così.

Innanzitutto perché Bruxelles non può aver trattato direttamente con il governo transnistriano, alla guida di uno stato non riconosciuto a livello internazionale. Poi perché l’Ue e la Moldavia, che avevano siglato il Dcfta nel 2014, avevano già da tempo espresso la volontà di traghettare la Transnistria nell’area, attraverso la Moldavia, con cui era in vigore l’Autonomous Trade Preferences (Atp) per lo scambio di una quota di beni senza dazi, prossimo alla scadenza. Ma soprattutto perché Tiraspol aveva detto chiaro e tondo più volte di non essere interessata al Dcfta, puntando invece all’ingresso nell’Unione economica eurasiatica a guida russa.

Quello di dicembre è perciò sembrato a molti un cambio di rotta inaspettato da parte di Tiraspol.

Scelta obbligata

I negoziati tra l’Ue e la Moldavia sul Dcfta erano stati avviati nel 2012, ben prima dei violenti cambiamenti in Ucraina che hanno rotto alcuni equilibri locali. Sin dall’inizio, l’Europa ha manifestato il proprio interesse perché Tiraspol si allineasse a Chişinău, seguendola nel Dcfta. La leadership transnistriana però puntava tutto sull’avvicinamento alla Russia e sull’entrata nell’allora Unione doganale – ora Unione economica eurasiatica – insieme ad altre repubbliche ex sovietiche, prima fra tutte la confinante Ucraina. Tutto sommato, un orientamento naturale per la repubblica separatista a maggioranza russa e russofona, legata a doppio filo a Mosca.

Si era così arrivati a un sistema ibrido e transitorio. Mentre la Moldavia a settembre 2014 ratificava gli accordi della Dcfta, che così sostituiva e superava l’Atp, l’Ue si impegnava a mantenere in vigore quest’ultimo regime per la sola Transnistria e solo fino alla fine del 2015.

Nel frattempo, però, molte cose sono cambiate.

L’Ucraina, temendo che il confine con la Transnistria potesse essere usato per infiltrare agitatori filorussi nel proprio territorio, ha imposto forti restrizioni sull’ingresso dal paese di uomini tra i 16 e i 65 anni, ponendo un forte freno all’economia legata al transito dei beni e dei lavoratori. Di recente, poi, gruppi di attivisti ucraini hanno posizionato blocchi stradali – simili a quelli esistenti da mesi al confine con la Crimea – per bloccare le merci da e per la Transnistria. Inoltre lo scorso maggio la Rada (parlamento) di Kiev ha annullato l’accordo, in vigore da anni, che consentiva alla Russia di transitare in Ucraina per approvvigionare la guarnigione di 1500 soldati che mantiene a Tiraspol dalla fine della breve guerra d’indipendenza nel 1991-92.

L’isolamento da est ha finito per alimentare una profonda crisi che sta mettendo in ginocchio l’economia della Transnistria. Il budget dello stato sta in piedi per il 70% grazie ai soldi mandati da Mosca che, alle prese con le proprie difficoltà legate al crollo del rublo e al prezzo del petrolio ben sotto i 100 dollari, da quest’anno non verserà più il solito contributo nelle casse di Tiraspol. Soldi che sono usati principalmente per pagare stipendi pubblici e pensioni, vale a dire alla maggioranza dei cittadini. Che infatti da quest’anno ricevono solo il 70% in contanti e il restante 30% sotto forma di titoli di debito. In totale si stima che le entrate che arrivano direttamente e indirettamente dalla Russia siano pari a 850 milioni di dollari l’anno, il 95% dell’intero Pil.

A questo si aggiunga il fatto, a tratti paradossale, che la Transnistria esporta la maggioranza delle proprie merci in Europa e non in Russia. L’avvicinarsi della scadenza dell’Atp ha quindi messo Tiraspol davanti a una scelta obbligata.

Un avvicinamento a ovest?

La Transnistria ha perciò deciso di conformarsi alle richieste di Bruxelles in cambio dell’estensione della Dcfta. Nell’arco di due anni dovrà rimuovere i dazi sui prodotti europei, adeguarsi alle regole dell’Organizzazione mondiale del commercio in campi come la concorrenza, le norme doganali, la trasparenza nelle imprese, e introdurre l’iva.

Il governo ha cercato di far passare la decisione presa in extremis come una propria vittoria politica, come una concessione all’Ue e persino come una sorta di riconoscimento di soggettività internazionale della Transnistria. Non è un dettaglio da poco. La questione politica interna, infatti, è forse una delle ragioni dell’improvviso dietrofront almeno come lo è quella economica.

Le elezioni legislative di novembre 2015 hanno sancito la spaccatura politica che già da tempo attraversava il paese. Il presidente Evgeny Shevchuk, il cui gradimento è drasticamente in calo, è osteggiato apertamente dal suo ex partito, Rinnovamento. Il risultato delle urne ha penalizzato i candidati appoggiati da Shevchuk, presentatisi come indipendenti, e ha invece premiato con la maggioranza assoluta Rinnovamento, che ha anche guadagnato otto seggi rispetto alle precedenti elezioni. Shevchuk è accusato dai suoi avversari politici, così come da gran parte dei cittadini, di essere il principale responsabile della crisi economica. Impedire gli effetti benefici che l’adesione alla Dcfta può apportare alla situazione del paese avrebbe ridotto a zero le già scarse possibilità di essere rieletto alle prossime presidenziali, fissate per dicembre 2016.

Al di là del calcolo politico ed economico, resta da capire se l’ingresso nella Dcfta non possa aprire la strada anche all’Accordo di associazione con l’Ue, di cui è parte integrante. La cosa è sempre stata negata da Shevchuk, ma abbiamo visto come questa non sia una garanzia. E resta anche da vedere se e quanto risulti cambiato l’equilibrio della Transnistria in favore di un avvicinamento alla Moldavia e all’Europa.

In questo senso non va dimenticato un dettaglio tutt’altro che secondario. E cioè che la decisione di aderire alla Dcfta – come ogni decisione politica a Tiraspol – non può essere avvenuta senza il via libera da Mosca. Che, quindi, sembrerebbe ora disposta a cedere quote di Transnistria in prospettiva di un alleggerimento del suo costo per le casse del Cremlino.


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