Un rifugiato curdo nella città di Mursitpinar (Turchia) aspetta notizie sulla città di Kobane (Foto Aris Messinis, Flickr)

Un rifugiato curdo nella città di Mursitpinar (Turchia) aspetta notizie sulla città di Kobane (Foto Aris Messinis, Flickr )

Gli USA costringono la Turchia a lasciar transitare sul proprio territorio alcune decine di militanti curdi diretti in Siria per difendere Kobane dai jihadisti dell'IS. Sul fronte interno, però, i rapporti tra Ankara e la minoranza curda restano tesi

06/11/2014 -  Fazıla Mat Istanbul

Sono stati accolti come eroi i centocinquanta peshmerga, milizie armate del Kurdistan irakeno, che sono giunti in Turchia la settimana scorsa per entrare a Kobane e unirsi alle unità di difesa popolare (YPG e YPJ) del Partito di unione democratica (PYD) che da oltre cinquanta giorni stanno resistendo all’assedio della città autonoma curda da parte dei jihadisti dello Stato islamico (IS, già ISIS).

Ma la folla di curdi di Turchia, radunata nelle province del sudest ad acclamare il passaggio dei 38 convogli arrivati via terra (con 65 uomini e artiglieria pesante, mentre altri 85 miliziani sono giunti via aerea) non si è limitata a manifestare la propria approvazione solo ai peshmerga, estendendola anche al presidente degli Stati Uniti Barack Obama, celebrato con l’esclamazione “Biji Obama” (in curdo, Viva Obama).

L’amministrazione della Casa Bianca ha infatti messo alle strette Ankara, obbligandola ad accettare il passaggio dei peshmerga attraverso il proprio territorio, un’eventualità esclusa categoricamente dal presidente Tayyip Erdoğan fino a due settimane fa.

Le pressioni della Casa Bianca

Ma a partire dalla metà d’ottobre, con l’intensificarsi dell’attacco dello IS a Kobane e il rischio sempre più vicino della sua caduta, le carte in gioco sono cambiate. Gli USA, già alla guida della coalizione che a Kobane effettua da diverse settimane dei bombardamenti aerei per frenare l’avanzata dello Stato islamico ha iniziato, attraverso i suoi velivoli, a recapitare anche armamenti al PYD, prima necessità dei curdi siriani impegnati nella difesa della loro città.

Un’azione che ha suscitato la contrarietà delle autorità turche, che hanno sempre affermato di considerare il PYD una organizzazione terroristica al pari del PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan, di cui è braccio siriano), subordinando la possibilità di un intervento militare a favore di Kobane alla cacciata del regime di al Assad, da realizzare assieme agli alleati.

Gli USA non solo hanno escluso questa ipotesi, opponendosi anche ad altre richieste turche come la formazione di una no-fly zone e di una zona cuscinetto (o area di sicurezza, come definita dal premier Ahmet Davutoğlu), ma hanno iniziato anche a fornire armi al PYD, dichiarando poi di non considerare la formazione curda un’organizzazione terroristica, e posizionandosi in aperta contrapposizione con Ankara. Il governo turco si è ritrovato isolato nella regione, con gli Stati Uniti allineati con la Russia e l’Iran (alleati di al Assad) nel rifiuto delle richieste di Ankara.

Unione delle forze militari curde

Intanto però si sono registrati altri importanti sviluppi sul fronte curdo, con un inedito ravvicinamento tra i curdi irakeni e quelli siriani del PYD. Il 15 ottobre, il parlamento della Regione autonoma del Kurdistan ha riconosciuto ufficialmente Rojava (Kurdistan occidentale, nel nord della Siria, di cui oltre a Kobane fanno parte anche i cantoni di Afrin e Jazira), approvando anche la decisione di aiutarlo economicamente.

A questo primo passo ha fatto seguito un incontro a Duhok dove il PYD e i partiti legati al Consiglio nazionale curdo (ENKS, che riunisce i partiti vicini alla politica del presidente della regione del Kurdistan irakeno, Masoud Barzani) hanno sottoscritto un accordo che stabilisce l’unione delle forze militari curde sotto un unico tetto. Quale conseguenza di questi sviluppi il 19 ottobre i peshmerga sono arrivati in Turchia, per passare, due giorni dopo, a Kobane.

Masoud Barzani, che era stato il primo a proporre il sostegno dei peshmerga a Kobane, ha ringraziato gli Stati Uniti, il PYD e la Turchia affermando che “senza il consenso e l’aiuto della Turchia e il sostegno degli USA [il passaggio dei peshmerga] non sarebbe mai stato possibile”. “È stato proprio Barzani a chiedere che gli USA diventassero parte in causa in questa equazione”, scrive la giornalista Amberin Zaman sul quotidiano Taraf , ed aggiunge che “mentre fino a poco tempo fa i rapporti tra la Turchia e il Kurdistan irakeno erano ottimi, hanno subito un mutamento dopo che la Turchia ha lasciato Barzani da solo nella lotta contro lo Stato islamico”.

L’arrivo dei peshmerga, per alcuni analisti, non ha tanto un’importanza militare (fermo restando che l’artiglieria pesante fornita al PYD per il loro tramite avrà comunque un peso per fronteggiare gli attacchi dello IS), considerato il numero limitato di combattenti che oltretutto non sono nemmeno in prima linea (sebbene all’inizio si fosse preso in considerazione l’invio di un migliaio di peshmerga (una disponibilità non richiesta dal PYD e contro cui i vertici delle forze armate turche avrebbero espresso forte avversione), ma un valore “simbolico”.

Il motivo lo spiega Cengiz Çandar su Radikal, che scrive: “Per la prima volta nella storia, una delle forze armate delle popolazioni curde divise [i peshmerga dell’Irak], si muove per attraversare il territorio dove risiede il maggior numero di curdi [la Turchia] ed andare ad aiutare altri curdi divisi [a Kobane]”.

La strategia della Turchia

Ma tutta questa mobilitazione non lascia di certo indifferente la Turchia, la cui politica interna – e la questione curda in particolare – è sempre più strettamente legata al futuro dello scacchiere curdo del Medio Oriente. Impedire che Kobane torni a ristabilire il suo governo autonomo, dopo l’eventuale cacciata dello IS, è tra i primi obiettivi perseguiti da Erdoğan che intende mettere in atto la sua “carta araba”, come afferma il giornalista Fehim Taştekin.

L’idea è quella di fare in modo che l’Esercito libero siriano (FSA) che lotta contro il regime di Assad, prenda anche il controllo di Kobane. Il premier Ahmet Davutoğlu ha chiaramente detto che Ankara non vuole al proprio confine “né il PYD, né il regime di al Assad e nemmeno l’IS”. Duecento uomini dell’Esercito libero si sono uniti alla lotta contro i jihadisti nel cantone curdo, già prima che arrivassero i peshmerga, entrando dal confine turco.

Tensioni interne

Intanto l’aria in Turchia resta molto tesa. Durante le manifestazioni curde per Kobane, iniziate il 6-7 ottobre scorsi e durate per più giorni, hanno perso la vita oltre 40 persone in scontri con la polizia e tra gruppi vicini al PKK e a quelli islamici radicali.

Tre militanti del PKK sono stati uccisi a Kars, mentre quattro militari in licenza, tre a Yüksekova e uno a Diyarbakır sono stati uccisi (secondo quanto affermato dalle fonti dell’esercito) da membri del PKK. A Bingöl, nel sudest del paese, tre dirigenti della polizia sono stati presi di mira in pieno centro cittadino con colpi d'arma da fuoco sparati da un'auto. Due poliziotti sono morti, l’altro è stato gravemente ferito. Nella giornata di ieri un politico del partito pro-curdo HDP (Partito democratico dei popoli) è stato accoltellato alla gola.

Il governo, dal canto suo, ha accusato il partito pro-curdo HDP, che aveva inizialmente indetto le manifestazioni, di incitare alla violenza i cittadini, ha messo a punto un nuovo pacchetto di sicurezza che concede ulteriori poteri alla polizia ed ha minacciato di sospendere le trattative di pace con il leader del PKK Abdullah Öcalan.

A otto mesi dalle legislative, l’appuntamento elettorale che avrà l’impatto finale e decisivo sulla “Nuova Turchia” plasmata nei 12 anni del Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP), secondo diversi osservatori il governo ha già iniziato ad operare per ampliare il ventaglio dei propri elettori. “Sembra che [i governanti turchi] per attirare il favore dei nazionalisti sperino di ricavare un vantaggio esercitandosi a sospendere il processo di pace”, scrive l’analista Kadri Gürsel sulle pagine di Milliyet.

“Il PKK commettendo omicidi rivolti a militari disarmati e in borghese dimostra che può tornare a utilizzare la violenza come uno strumento di negoziazione. La parte occidentale del paese è arrivata al limite della sopportazione degli episodi di violenza da parte del PKK, mentre quella orientale ha grandi aspettative la cui disillusione tende a tradursi in violenza. È un ordigno esplosivo. Non bisogna giocarci”.


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